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23 Lug 2017
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Mente e Cura n. 0/2009

Riassunto: L’autore presenta una proposta formativa e metodologica: la psicoterapia psicodinamica integrata. Con questo metodo si eliminano le vecchie contrapposizioni tra indirizzo biologico e psicologico per convergere su una unica visione che supera il dualismo cartesiano. Ciò significa che gli psicoterapeuti devono anteporre a qualsiasi griglia metapsicologica, l’acquisizione precisa e circostanziata di dati, perchè questo permette di evidenziare lo sviluppo dell’unità psicofisica dell’essere umano e, poi, determina il binario sul quale impostare una teoria dello sviluppo psicofisico umano, giustificata da evidenze. Con le scoperte e l’applicazione delle neuroscienze, negli ultimi anni, non c’è più spazio per i "guru della psicoterapia", cioè, psicoterapeuti e psichiatri  che approfittano della parzialità dei dati neuroscientifici e della rigida separazione dei campi di ricerca rispettivamente biologico e psicologico e si propongono a un pubblico ignaro e sprovveduto e, con una conoscenza autoreferenziale, impongono il loro carisma.

Mente e Cura

Ho molto piacere di intervenire dopo il prof. Lalli perché è stato anche il mio maestro, e mi ha trasmesso la passione per la psichiatria e per la psicoterapia psicodinamica. Ho avuto, infatti, la fortuna di avere un docente che fin dall’inizio mi ha spinto a osservare due aspetti della stessa realtà, quello biologico e quello psicologico, senza mai considerarli sdoppiati. Chiaramente questa cosa ha fatto evolvere in me una ricerca che mi ha portato, insieme ad Andrea Balbi, a fondare questa scuola che, come obiettivo, si propone esattamente di integrare i due grandi aspetti della realtà umana.
Partiamo prima dal rapporto tra psicoanalisi e psicoterapia, e diciamo che il concetto di integrazione in psicoterapia non è una novità, già lo stesso Freud paragonava la psicoterapia al rame, che è una fusione di elementi, contrapponendola però all’oro puro della psicoanalisi.
Freud quindi, anteponeva in un certo senso, la teoria alla pratica, cercando di dimostrare che i suoi risultati non dipendevano da una generica influenza ipnotica ma dalle conseguenze dell’applicazione del metodo da lui ideato.
Freud, con la psicoanalisi, si contrappone all’ipnosi, come già il prof. Lalli ha sottolineato, forse perché riconosce che questa pratica importante ha un carattere negativo. Come ho avuto modo di definire in alcune pubblicazioni e in un libro, si tratta del fattore carismatico in psicoterapia. Freud ha cercato di uscirne attraverso il metodo da lui ideato, ma a mio avviso e di molti altri non c’è riuscito.
Freud scrive una teoria. Teoria da θεωρία (sguardo), è solo un punto di vista, una visione del mondo, una prospettiva che attiene a quel particolare osservatore piuttosto che una visione universale, omogeneamente inquadrabile da diversi punti di vista fino a definire un vero orizzonte scientifico.
Dopo il tentativo abortito del 1895, con il famoso progetto che Freud cestinò e che conosciamo solo grazie alla moglie dell’amico Fliess, non si capisce perché i nostri colleghi psicoanalisti esaltino quest’opera, affermando che l’autore sia un precursore delle neuroscienze.
Freud si rese conto che le neuroscienze della sua epoca non gli fornivano i dati per la costruzione di una psicologia scientifica, così abbandonò il metodo neuroscientifico e scelse di speculare intorno alla mente umana, basandosi su intuizioni ed esperienze empiriche o addirittura autoreferenziali.
Era il 1895, che poteva fare un giovane scienziato ambiziosissimo come Freud? Doveva per forza scegliere una strada diversa per affermare le sue grandi intuizioni ed ecco cosa si inventa: la metapsicologia, cioè un oltre…, o intorno a…, qualcosa che, come la metafisica va oltre la realtà fisica, va oltre la psicologia, ma in fondo è solo una serie di ipotesi.
La metapsicologia diventa così il corpus teorico imprescindibile di un autentico psicoanalista, di colui che dovrebbe mantenere la purezza dell’oro della psicoanalisi, stando bene attento a non confonderlo col rame della psicoterapia, roba per “praticoni” secondo Freud.
Come sappiamo, nel corso degli anni, l’oro puro della psicoanalisi è finito per essere come il fuoco di Vesta, mantenuto acceso da sacerdoti e sacerdotesse riuniti
a guardia di una ortodossia e di una autenticità che oggi si rivela senza senso. Non espellono più nessuno, infatti e, come diceva il prof. Lalli prima, ormai la psicoanalisi è un contenitore, il Pantheon, con tutti déi, allineati secondo il famoso verdetto di Dodo (Alice nel paese delle meraviglie), nel quale tutti hanno vinto e tutti meritano un premio.
Tutti i teorici, tutti gli epigoni di Freud hanno ragione (!?). Sappiamo che non è così. Prendiamo ad esempio Kohut, che è un vero rivoluzionario rispetto a Freud. Ci verrebbe da dire che cosa c’entra la sua teoria con la psicoanalisi ortodossa?
Ebbene anche lui è stato ammesso dentro il Pantheon della psicoanalisi, e oggi si cerca di considerarlo come se fosse addirittura un continuatore di Freud. Non parliamo poi di Bowlby che è stato cacciato via, stigmatizzato come un eretico per tanti anni e poi adesso è recuperato sottobanco, dicendo che in fondo ha fatto l’analisi con Melanie Klein!
La crisi della teorizzazione freudiana coincide, in qualche modo, con i grandi passi avanti della psicologia scientifica e delle neuroscienze. La scienza progredisce
perché non è carismatica, non si basa su personalità, ma su fatti e argomenti, che comunque vanno avanti a prescindere dai soggetti.
Dopo anni di autarchia teorico-metodologica, trascorsi ad esaltare le intuizioni del pioniere della psicoanalisi, anche le organizzazioni e le personalità che nel nome di Freud si sono formate, aprono gli occhi su ciò che scaturisce dal contributo della ricerca scientifica, e in particolare delle neuroscienze (Mancia, 2007). Mi dispiace molto che il prof. Mancia sia venuto a mancare, era veramente un grande della psicoanalisi ma anche delle neuroscienze in Italia, una persona molto aperta, ho letto l’ultimo libro che ha scritto: Psicoanalisi e Neuroscienze, una raccolta di testimonianze, di cui consiglio la lettura, anche perché recentissimo, del 2007.
Però, non dimentichiamoci del fatto che: chiunque venga a proporre un’innovazione nel campo della psicoanalisi finisce per proporsi come antiFreud. Sembra quasi che faccia comodo che ci sia stato un Freud per poterlo ogni volta detronizzare e tentare di prenderne il posto.
Dopo anni di arroccamento e di superbia, coltivata nella sicurezza di possedere la “verità scientifica”, rivelata dal fondatore illustre e da epigoni predisposti a ricalcare gli atteggiamenti autoreferenziali del maestro, l’establishment psicoanalitico (Green, 2002) prende atto che potrebbe non esserci differenza tra applicazione del metodo della psicoanalisi e applicazione di una psicoterapia ad essa ispirata.
Forse non sono passati abbastanza anni per permettere che il concetto di psicoterapia si emancipi dagli imprimatur di qualsivoglia ortodossia psicoanalitica e dal carisma di Freud, e si affermi come integrazione di vari punti di vista, seriamente e saldamente poggiati su dati incontrovertibili di natura scientifica.
Questi dati dovrebbero essere riconosciuti da qualsiasi psicoterapeuta come common ground di una disciplina che voglia ridurre al minimo l’inevitabile fattore carismatico (Lago, 2006) che caratterizza la relazione terapeutica.
Parlava poco prima il prof. Lalli di processo e outcome. È chiaro che sull’outcome non si può fare una ricerca ben fatta in campo psicodinamico, bisogna guardare al processo e bisogna analizzarlo bene, secondo dei riferimenti di natura accertata e sicura.
Per esempio occorre stabilire una comprensione univoca dello sviluppo mentale fisiologico dell’essere umano. Se non siamo d’accordo su questo cardine, non c’è più la possibilità di stabilire la cosiddetta fisiologia dell’essere umano.
Fonagy, che è una grande personalità moderna, ha impostato le cose in questo modo: ha stabilito un percorso evolutivo normale, ed è il primo che parla di sanità (noi come scuola usiamo il termine di sanità di base ma è la stessa cosa). Cioè esiste la possibilità di definire il sano, per cui in base a questo, come in tutte le metodologie mediche, se abbiamo stabilito un punto di partenza, abbiamo anche chi se ne discosta e quindi possiamo definire la patologia, al fine di farne scaturire una psicopatologia evolutiva (Fonagy, 2003) quale conseguenza dei traumi e dei blocchi dello sviluppo stesso.
Common ground è sicuramente l’osservazione e la ricerca dello sviluppo infantile, ossia un fertile terreno d’incontro tra neuroscienze e psicologia scientifica.
Diciamo, quindi con chiarezza, che senza integrazione (metodologica, formativa, applicativa) a nostro avviso non può esserci psicoterapia, e che il tentativo di mantenere gli steccati ideologici che hanno frammentato il terreno comune della psicoterapia, creando una babele di indirizzi spesso incompatibili l’uno con l’altro,
non aiuta le nuove leve di psicoterapeuti a formarsi in modo adeguato, così come non aiuta i pazienti in psicoterapia a ricevere risposte corrette e risolvere realmente i loro problemi.
Le neuroscienze sociali hanno dato un contributo allo smantellamento del mito della mente isolata cui soggiace anche il pensiero freudiano. La matrice di questa idea dell’uomo monade vede tutti concordi nel risalire a Cartesio e al cogito ergo sum, secondo cui il Sé emergerebbe in modo automatico dalla percezione della propria attività mentale. Quindi, non c’è nessun misterioso salto dalla mente al corpo. I salti si fanno, casomai, dal corpo alla mente se si segue l’indirizzo evolutivo, nel senso che esiste un passaggio evolutivo da una dimensione prettamente biologica a una dimensione che diventa sempre più mentalizzata.
Il cogito ergo sum fa perdere di vista la metodologia che deve partire per forza da una teoria dello sviluppo, e lo fa con un atto automatico che ha incantato molte persone, compresi alcuni teorici della psicoanalisi.
La rappresentazione di Sé, ovvero lo sviluppo del “Sé come agente” risulta, invece, sempre più come il risultato di un processo evolutivo che prevede il legame affettivo e l’intersoggettività, come ampiamente è stato esposto dalla prof.ssa Mazzoni.
Parlare di mente, anche se non più di psiche, ovvero di anima come la intende da sempre la metafisica, potrebbe mantenere la scissione cartesiana tra res cogitans e res extensa.
Ci sono anche i cosiddetti mentalisti, ovvero coloro che non parlano più di psiche in termini animistici, ma di una mente come un’entità che ha una sua consistenza a priori, ma anche in questo caso ci sembra che si rischi il dualismo cartesiano.
Altrettanto potrebbe avvenire per il cosiddetto inconscio contrapposto alla coscienza, oppure al razionale in antitesi con l’irrazionale.
Solo una visione integrata, che recuperi, in una sintesi adeguata, il conflitto tra termini in apparenza inconciliabili, può sperare di sfuggire alla costituzione di entità astratte o parziali come il corpo o la mente. Si tratta, quindi, di restituire al corpo e alla mente la loro natura di poli dialettici,
la cui sintesi non può che essere l’organismo umano complesso. Esistono, altresì, due linee di sviluppo diverse che, pur non procedendo parallelamente, possono essere valutate secondo ottiche rispettivamente di tipo biologico o di tipo psicologico; ovviamente queste due linee si incontrano per cui poi dopo bisogna fare una sintesi. Si dice che ciascuna di queste ottiche abbia il diritto di esporre il suo punto di vista in modo indipendente e incondizionato dall’altra ottica e, semmai, tentare la costituzione di ponti, ossia punti di passaggio tra il percorso parallelo di ambedue.
Qualsiasi ricerca applicata sull’origine della mente non può avere che un comune background nel terreno psicobiologico: non vogliamo i ponti perché potrebbero condurre a due binari paralleli, ricerchiamo il common ground, vogliamo individuare il punto di partenza che non può che essere psicobiologico.
Se gli psicoterapeuti non vogliono incappare in una visione parziale, con inevitabile nocumento per la salute dei loro pazienti, devono anteporre a qualsiasi griglia metapsicologica o teoria che dir si voglia, la acquisizione precisa e circostanziata di dati che, permettendo di mettere in evidenza come si sviluppa l’unità psicofisica dell’essere umano, determinano poi il binario sul quale si può impostare una teoria dello sviluppo psicofisico umano, il più possibile giustificata da evidenze.
Possedere un saldo background psicobiologico toglie spazio all’esercizio speculativo che da secoli condiziona il punto di partenza di teorie psicologiche formulate da personalità carismatiche (Lago, cit.).
Quanti ne conosciamo nella storia? Quanti ne ha conosciuti la psicoanalisi?
Prendiamone uno a caso, Wilhelm Reich, grande genio riconosciuto che ha avuto delle intuizioni meravigliose; come è andato a finire Reich? Vi ricordate le cabine dove faceva chiudere la gente per attirare gli orgoni, elementi captati dall’aria, dall’ambiente? Chiaramente Wilhelm Reich aveva dei disturbi di personalità, probabilmente aveva delle problematiche personali, però sappiamo pure che questa sua teorizzazione è stata accettata, ha avuto dei seguaci!
Ma chi non ne ha avuti fra i grandi epigoni di Freud o comunque tra quelli che inizialmente erano eretici e poi si sono proposti come antiFreud?
La verità è che si sono volute creare le condizioni per spodestare il padre carismatico e mettersi al posto del padre stesso, per fare una nuova scuola carismatica e imporre un nuovo corso, procurandosi discepoli, non persone consapevoli in grado di apprendere e conoscere scoperte realmente valide, ma soltanto persone condizionate, in grado di costituire un seguito di natura fideistica o carismatica.
Le personalità carismatiche non si limitano solo a teorizzare, ma da ciò fanno scaturire una psicopatologia e un metodo terapeutico conformi alla teoria, per cui gli eventuali errori di formulazione teorica non fanno che ripercuotersi sul piano applicativo, ovvero sulla pelle dei pazienti che con quella tale psicoterapia verranno trattati.
Se un chirurgo fa una teoria, tecnica o fisiopatologica, che non funziona, i danni si vedono immediatamente, ma se questa teoria la mette a punto uno psicoterapeuta i danni si vedono forse dopo 30-40 anni, e i problemi sono per le persone, quindi dovremmo stare attenti a teorizzazioni che si introducono nel campo della psicopatologia.
Sono perfettamente d’accordo col prof. Lalli che il DSM sia stato una disgrazia.
Grazie al prof. Lalli, ho imparato la psicopatologia studiando i fenomenologi, psichiatri che partivano dall’esperienza clinica e che non si mettevano a teorizzare, ma innanzitutto approfondivano e studiavano il caso.
Così ci hanno insegnato a non creare delle etichette e schemi astratti, come è successo invece da parte di certi presunti e millantati teorici. Questo continua purtroppo ad avvenire nel momento in cui non si fanno discorsi chiari: ma le neuroscienze ci sono venute in soccorso per togliere acqua a questi pesci!
Facciamo questa affermazione ricordando per esempio i guru degli anni ‘70. Con le scoperte e l’applicazione delle neuroscienze negli ultimi anni, infatti, non c’è più spazio per i cosiddetti guru della psicoterapia, sono spariti, non ci sono più, sono fuggiti, e diremo dove.
Parliamo di quei personaggi che, approfittando della parzialità dei dati neuroscientifici e della rigida separazione dei campi di ricerca, rispettivamente biologico e psicologico, si sono potuti proporre a un pubblico ignaro e sprovveduto, agitando una conoscenza autoreferenziale e imponendo il proprio carisma sulla interpretazione di un mondo mentale reso vago e oscuro, più o meno volutamente, da termini di comodo come sconosciuto, irrazionale, inconscio, parole che
anche io utilizzo, ma che cerco di usare come parole valigia, ossia contenitori convenzionali di significati, mentre vedo che qualcun altro lo fa per potersi nascondere dietro affermazioni indiscutibili, reificando delle concezioni astratte.
Allora dove sono andati a finire i guru? È interessante notare come al fenomeno dei guru in psicoterapia, assai evidente in Italia nel decennio 1970-1980, sia succeduto col grande successo della psicoanalisi in campo psichiatrico, l’interesse dei filosofi per l’applicazione di una forma di psicoterapia avente come fondamento concetti esclusivi di natura filosofica (Berra e D’Angelo, 2008).
Quindi i filosofi si sono messi a fare psicoterapia! Essi non hanno bisogno, come i medici e come gli psicologi, di appoggiarsi su conoscenze scientifiche. Per esempio, nessuno psicologo e nessun medico potrebbe fare a meno delle conoscenze attuali delle neuroscienze perché sarebbe una gravissima mancanza, i filosofi invece sì, perché loro si muovono in un campo umanistico.
Per questi “pensatori” non ha importanza che sia stato scoperto il cervello sociale, così come ci ha esposto il prof. Oliverio, non devono tener conto del fatto che, per esempio, il 75% del cervello si sviluppa dopo la nascita e che ancora a 18 anni abbiamo uno sviluppo ulteriore di alcune zone del cervello.
I filosofi possono benissimo porre dei concetti astratti e dire: questa è la nascita umana, che sarebbe una specie di perfezione totale, completa, di qualità mentali, per cui un soggetto le avrebbe alla nascita e se le porta dietro per tutta la vita, come una specie di marchio di fabbrica.
Le novità della ricerca psicobiologica provocano così la rinuncia al confronto col mondo scientifico da parte dei filosofi “psicoterapeuti”, ma abbiamo anche il trasloco di qualche vecchio guru degli anni ‘70 in seno alla politica politicante.
In politica, infatti, si può dire qualunque cosa, tanto c’è sempre l’avversario che dice l’opposto, si possono fare affermazioni tra le più assurde: “…io ho inventato la sanità mentale…”, “…io sono colui che propone un discorso nuovo, nuovissimo, contro tutto e contro tutti …”, tanto in politica c’è la tribuna per dire quello che si vuole, e dove più facilmente possono essere tollerati discorsi fumosi e ideologie astratte (Lalli, 2007). Qui mi riferisco a un lavoro del prof. Lalli molto interessante che vi invito a leggere sul suo sito internet, e che si intitola “Tramonto di un’illusione”.
Ritornando all’origine della mente, la psicobiologia non lascia spazio a ipotesi che non prevedano lo sviluppo graduale di funzioni mentali che si svolgono tra l’individuo e l’ambiente, ovvero innanzitutto tra il neonato e i caregiver.
Se la dotazione strutturale del cervello umano è il risultato evolutivo della filogenesi, lo sviluppo e la maturazione del cervello, ovvero la sua messa a punto e la normale funzionalità di esso dipendono dalla natura delle relazioni primarie, quindi da un fattore relazionale di natura affettiva.
Data l’immaturità del cervello neonatale e la dipendenza che lo sviluppo mentale dimostra nei confronti della relazione con i caregiver, occorre ipotizzare una unità psicofisica primitiva, del tutto lontana dai livelli evoluti successivi, definiti con i termini di Io psichico, senso o immagine di sé.
Noi l’abbiamo chiamata Protomentale, abbiamo fatto un “furto” che ci attribuiamo,acquisendo il termine da Bion, uno dei più grandi psicoanalisti della storia, da noi stimato perché è stato anche un grande medico.
Questo termine ci soddisfa, ma corrisponde all’unità psicofisica umana e può essere chiamata come si vuole; non abbiamo nessuna voglia di coltivare un gergo da diffondere, non vogliamo tanto meno diffondere “vangeli per convertire il popolo”.
Il termine più adatto potrebbe quindi essere Proto-sé (Damasio, 1999) o Protomentale (Lago, cit.), cioè una unità psicofisica in grado di esprimersi attraverso risposte emotive all’ambiente.
Adesso vi mostriamo come si organizza lo sviluppo tenendo conto di quanto diceva il dott. Tropeano, riferendosi alla relazione del prof. Oliverio, sui due tipi di memoria, quella implicita e quella esplicita.
Le emozioni del neonato tendono a organizzarsi mediante la fissazione di tracce indelebili nella memoria a lungo termine di tipo implicito.
L’evidenza di due tipi di memoria (implicita ed esplicita), facenti capo a due sistemi strutturali diversi del cervello (LeDoux, 1996), i quali maturano in epoche diverse, toglie l’argomento principale a tutti coloro che potrebbero proporre una origine della mente automatica (come l’Io o immagine interiore alla nascita!), postulando una specie di innesco di qualità mentali superiori indotto dall’impatto della risposta neonatale a stimoli naturali generici come la luce, il suono, la temperatura (mi chiedo cosa sia questo gioco di prestigio: cosa è questa magica luce che innesca l’Io alla nascita!).
La luce casomai agisce come tutti gli altri stimoli. Riconosciamo di certo che c’è uno stimolo diverso alla nascita rispetto a quello che c’era dentro l’utero, ma non credo proprio che a causa della luce si possa manifestare questa entità psicologica che agisce nella mente e nel corpo del bambino appena nato. È meglio che questa panzana la si metta da parte, così come quella legata al “miracolo” della nascita.
La possibilità di “innesco immediato” di qualità mentali superiori, di volta in volta definiti Sé, Io psichico, immagine interiore, è stata in qualche caso presentata come il recupero di una condizione precedente protomentale sviluppatasi nella vita intrauterina.
Quest’ultima ipotesi, però, altro non è che una attribuzione di significato al comportamento fetale del tutto arbitraria e inappropriata ma funzionale alle ideologie che, in raccordo con una secolare visione religiosa, vogliono presentare la nascita umana come un fatto prodigioso e determinante in sé (il miracolo della nascita!) e non la battuta di inizio di uno sviluppo postnatale dell’essere umano, che preveda la presenza interattiva indispensabile dell’altro da sé.
Se un bambino appena nato vedesse la luce e poi fosse lasciato isolato, vorrei sapere come si sviluppa l’Io interno di questo bambino! Avremo come tutti immagineranno, un autistico, una patologia grave dello sviluppo, se non addirittura la morte del soggetto.
Il Protomentale, quindi, attiene alla vita postnatale che si presenta fin dall’inizio come vita sociale, ovvero dinamica relazionale interattiva tra il neonato e i caregiver, determinante per lo sviluppo di un cervello immaturo che necessita di almeno due anni per raggiungere una condizione neurofisiologica sufficiente per parlare di unità psicofisica mentale e non solo protomentale (Siegel, 1999).
Sono i due anni, per esempio, che richiede l’ippocampo per maturare! A cominciare dalla nascita, quindi prima di questi 18-24 mesi, non abbiamo la possibilità di parlare di una mente che ritiene ricordi autobiografici e quindi tutto è legato alla memoria implicita, una memoria emotiva che non fissa i ricordi episodici, ma solo le emozioni.
Nel processo di sviluppo che procede dal protomentale al mentale entrano appieno due aspetti che le neuroscienze hanno studiato in modo particolare: le emozioni e la memoria.
La memoria implicita viene definita inconscia e non trasformabile in ricordo cosciente; la memoria esplicita è definita cosciente o in grado di diventarlo (il preconscio di Freud). Qui è doverosa una citazione di Freud, che ha avuto la genialità di intuire il preconscio senza possedere validi strumenti, essendo nato nell’800, eppure arrivando a percepire questo aspetto della realtà. La critica potrebbe nascere quando poi ha proposto l’Es, cioè un inconscio indifferenziato, concetto che lo ha portato a commettere degli errori.
Le emozioni vengono organizzate in termini di memoria implicita (mediata dalle varie strutture controllate dall’amigdala), come ci diceva il prof. Oliverio, dal collegamento dell’ippocampo con le aree associative. Un ricordo, anche emotivo, può diventare cosciente, ossia fissato nella memoria esplicita, e qui vi illustro semplicemente i centri corticali della memoria implicita, e i centri dell’ippocampo con le sue connessioni:
Collegando le considerazioni di LeDoux con quelle di Damasio (cit.), è possibile comprendere come una “configurazione neurale” sia responsabile del vissuto emozionale.
Il Proto-sé di Damasio è una organizzazione precoce che si struttura sulla base di stimoli emotivi che producono cambiamenti del profilo chimico del corpo. A loro volta gli stimoli emotivi sono responsabili di configurazioni neurali che si dispongono in mappe rappresentate nel cervello e fissate nella memoria implicita.
L’intimo rapporto tra emozioni e memoria, così brevemente accennato, è in grado di fornire fondamenti e offrire prospettive enormi al metodo e all’applicazione della psicoterapia, in particolare riguardo ai seguenti punti:

– l’origine e lo sviluppo precoce dell’unità psicofisica umana,
– la natura inconscia e cosciente dei processi mentali,
– il profilo evolutivo psicofisico della personalità.

Del primo punto ho già accennato parlando del protomentale e della sua tendenza allo sviluppo verso una funzione cognitiva, la quale innanzitutto si svolge in modo inconscio, mediante una modalità integrata di tipo narrativo, estetico ed emotivo, risultato della fissazioni di immagini mentali, frutto delle esperienze intersoggettive, nella memoria esplicita (Lago, cit.).
Il confronto tra protomentale e pensiero inconscio fa emergere la necessità di configurare due modalità inconsce che si svolgono in parallelo nell’unità psicofisica successiva ai primi due anni di vita del neonato. Ciò che avviene prima dei due anni di vita è invece connotato dalla prevalenza dell’attività protomentale.
Con l’apprendimento del linguaggio, si organizza un terzo livello mentale, il pensiero verbale, che attiene al pensiero cosciente ma è dipendente dal corretto sviluppo dell’attività che abbiamo definito pensiero inconscio, un’espressione del quale è ad es. l’attività onirica.
Inquadrata secondo i tre livelli mentali (protomentale, pensiero inconscio, pensiero verbale), la personalità può esprimere quindi un profilo evolutivo fisiologico, in base al quale è possibile evidenziare ritardi o blocchi causa di patologie dell’unità psicofisica umana.
L’acquisizione di una psicopatologia dello sviluppo, basata su presupposti di tipo neuroscientifico, permette un corretto inquadramento dei disturbi mentali e l’applicazione di metodi di cura tendenti al recupero di una sanità mentale come ripresa del profilo evolutivo psicofisico della personalità.
Per cui, il disturbo mentale non è più né qualcosa che ha a che fare con la genetica, né qualcosa che ha a che fare soltanto col trauma, né tanto meno con il conflitto di buona memoria freudiana, ma si tratta di un conflitto dello sviluppo sulla base di una linea di sviluppo sano, normale, che noi dobbiamo tenere sempre presente come termine di confronto.
Questo che vi presento è uno schema semplificato per farvi capire come consideriamo la personalità sana: abbiamo insieme i tre livelli mentali, protomentale, pensiero inconscio e pensiero verbale, abbiamo messo dalla parte del protomentale il sistema attaccamento con una quota di protomentale di base, nel senso che le emozioni non devono essere eliminate. Le emozioni ci devono essere ma in una quota stabile, che denota che il soggetto riesce ad esprimerle bene, senza eccessi. Dall’altra parte c’è l’integrazione con lo sviluppo della personalità, del sistema sessualità, che trova una zona di contatto prossimale con il sistema attaccamento, cosicché una persona equilibrata riesce a svolgere uno sviluppo che integra il sistema attaccamento col sistema sessualità, per cui il pensiero inconscio si organizza e il pensiero verbale diventa coerente.
Da questo schema ricaviamo la psicopatologia. Per esempio prendiamo una situazione isterica; questi due aspetti: sistema attaccamento e sistema sessualità saranno sdoppiati, non saranno più sovrapposti, ma da una parte avremo il sistema attaccamento, più o meno insicuro, ma stabile, organizzato, dall’altra parte avremo un sistema sessualità che funziona, ma sempre in modo alternato, cioè quando c’è la sessualità non c’è l’attaccamento, quando c’è l’attaccamento non c’è la sessualità.
È solo una traccia per dirvi come si può ricavare una psicopatologia dello sviluppo una volta che si sono chiarite le basi, cioè quello che abbiamo definito common ground.
Parliamo ora della cosiddetta simulazione incorporata e del suo ruolo nella cognizione sociale, quale effetto dell’evidenza dei “neuroni specchio”, ossia di una classe di neuroni premotori che si attivano sia durante l’esecuzione effettiva di un’azione sia durante l’osservazione della stessa azione ad opera di un altro soggetto. Questa dotazione neurofisiologica, presente anche negli animali, fa parte di un patrimonio innato che si manifesta fin dai primi momenti della vita postnatale, costituendo un paradigma spontaneo “che innesca il senso di identità sociale che noi esperiamo nel contatto con gli innumerevoli altri sé di cui è popolato il nostro mondo sociale” (Gallese, 2007).
«La ricerca neuroscientifica ha cominciato a mettere in luce i meccanismi neurali che mediano tra i molteplici livelli della nostra esperienza personale del nostro corpo vissuto e le certezze implicite che contemporaneamente abbiamo riguardo agli altri. Questa conoscenza del corpo per esperienza personale rende possibile la nostra sintonizzazione intenzionale con altri, che a sua volta fonda uno spazio condiviso di intersoggetività, uno spazio noi-centrico grazie al quale possiamo esperire direttamente il significato delle azioni compiute dagli altri e decodificare le loro emozioni e sensazioni. Si raggiunge implicitamente una “comprensione esperienziale” leggendo il comportamento degli altri individui in termini di esperienze intenzionali, in base all’equivalenza tra ciò che gli altri fanno e sentono e ciò che noi stessi facciamo e sentiamo. Questo meccanismo di modellamento è la simulazione incorporata, e i neuroni specchio ne sono probabilmente il corrispettivo a livello neurale» (Gallese, ivi).
Da questa simulazione incorporata passiamo al concetto di sintonizzazione intenzionale che si associa al meccanismo della simulazione incorporata, che permettono di basare su dati quello che le ipotesi psicodinamiche avevano sempre ipotizzato, cioè la natura implicita ovvero inconscia della cognizione sociale.
Conoscere ciò che pensa, sente, esperisce un altro non è soltanto interpretazione dei contenuti mentali altrui ma, in primis, è simulazione incorporata, ossia rappresentazione interna degli stati corporei associati ad azioni, emozioni, sensazioni che l’osservatore vive come proprie.
Il carattere esperienziale della sintonizzazione intenzionale fornisce una spiegazione neurofisiologica dei fenomeni empatici ma anche dei processi di mentalizzazione.
In base a quanto detto prima, la mentalizzazione ossia “tenere a mente la mente” altrui (Fonagy et al. 2001, 2002), primo fondamentale processo di conoscenza intersoggettiva, avverrebbe innanzitutto in modo indiretto, empatico prima di completarsi mediante riflessioni cognitive dirette.
I cognitivisti dicono che la cognizione favorisce l’attaccamento, cioè sapere cosa l’altro pensa favorisce il legame. Ebbene, Fonagy ci dice esattamente il contrario, noi siamo psicoterapeuti psicodinamici e condividiamo con lui che l’attaccamento permette la cognizione.
Ecco perché assumiamo la posizione di Vygotskij e non quelle ipotesi dello sviluppo più razionali come quella di Piaget. Vygotskij afferma che il bambino si può aiutare nello sviluppo e quindi non è vero che un bambino è rallentato o ritardato perché non riesce a raggiungere delle competenze cognitive, basta aiutarlo con un contesto affettivo, relazionale, di attaccamento sicuro, perché si sviluppi meglio.
La scuola IRPPI sostiene questo ulteriore elemento: anche la sessualità si avvale dell’attaccamento, per cui se c’è un attaccamento sicuro anche la sessualità si sviluppa bene.
Il concetto di sessualità disinibita, o staccata dai legami affettivi, è patologico, porta allo sviluppo di una sessualità più o meno perversa, più o meno alterata, e in questo senso “tenere a mente la mente”, che è il primo sforzo che si fa in termini di mentalizzazione, è importante per garantire uno sviluppo corretto anche dal punto di vista sessuale.
Tenendo conto che nella schizofrenia e nell’autismo si registra una carenza o assenza della sintonizzazione intenzionale (Gallese, cit.), con conseguente compromissione della funzionalità del sistema dei neuroni specchio, appare chiaro quanto il processo di mentalizzazione debba avvenire innanzitutto nel pensiero inconscio, come già accennato, prima o parallelamente alla sua comparsa nel pensiero verbale.
Senza la simulazione incorporata che dia luogo alla sintonizzazione intenzionale, il linguaggio diventa fatuo (Lago, 2001) e l’esperienza sociale si traduce in resoconti piatti e distaccati del comportamento esteriore dell’altro, vissuto come alieno e non come alter ego dotato di pari prerogative emotive ed affettive.
Dunque l’empatia viene prima dell’interpretazione! È un grande riconoscimento per Kohut, che venne fortemente osteggiato dall’establishment psicoanalitico.
L’empatia è stata un campo di studio di grandi filosofi come Husserl, ma anche della sua allieva Edith Stein, meno conosciuta, che vi ha dedicato la sua tesi di laurea, prima di essere condotta in un campo di concentramento dai nazisti.
La psicoterapia integrata con i dati delle neuroscienze trova quindi ulteriori conferme, dal sistema dei neuroni specchio, dell’importanza del punto di vista intersoggettivo nell’applicazione di un metodo di cura.
In particolare, diventa impossibile prescindere da una prima indispensabile fase empatica (Lago, 2006 cit.) che consenta la costituzione di uno spazio intersoggettivo terapeutico (il setting), all’interno del quale inserire interventi interpretativi proposti e condivisi con il paziente.
Il lavoro interpretativo che si svolge in un contesto empatico, a fianco del paziente, e non sopra o sotto (Lalli, 2008), perfeziona i processi di mentalizzazione che rendono indipendente l’attività di pensiero del paziente stesso e riducono la mistificazione del fattore carismatico in psicoterapia (Lago, 2009).

BIBLIOGRAFIA
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