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06 Ott 2017
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IDEE IN PSICHIATRIA  VOL. 3 (3) 2003

Riassunto: Nel momento attuale, crediamo di poter proporre una prospettiva dello sviluppo della personalità che consenta di recuperare gli apporti più grossi che alla psichiatria provengono dal campo neuroscientifico e psicoanalitico.L’intervento di Psicoterapia Psicodinamica Integrata, che proponiamo per i Disturbi di Personalità, riflette la visione unitaria che riunisce intervento biologico e psicologico, consentendo alla Psichiatria di rientrare a pieno titolo nella Medicina, disponendo di un metodo non riduzionistico e di una cura non unilaterale da sottoporre alla valutazione dei risultati.

Idee

 

Come psichiatri del nostro tempo, abbiamo l’esigenza di confrontarci con le conoscenze attuali, al fine di individuare il trattamento più efficace per le forme cliniche di nostra competenza.
Dedicandoci ai Disturbi di Personalità, abbiamo cercato di mettere a punto strumenti di intervento che andassero alla radice del disturbo mentale, anche perché è impossibile prescindere dalla radice quando si ha di fronte una malattia della struttura, che a volte evolve verso un disturbo mentale conclamato, altre volte, e sicuramente il più delle volte, si fissa in una condizione che è stata definita come equilibrio patologico.
La prassi clinica psichiatrica può diventare piuttosto ripetitiva e inconcludente, a nostro avviso, se si limita al contenimento delle crisi acute e alla classificazione dei sintomi in termini di psicopatologia descrittiva.
Lo studio della personalità patologica, quindi, non ci offre solo un campo di ricerca e di applicazione terapeutica efficace, ma ci fornisce anche la possibilità di verificare una visione d’insieme, ovvero la costanza di un impianto metodologico tale da giustificare l’intervento che abbiamo definito radicale.


Il superamento degli opposti riduzionismi in Psichiatria
Come clinici, infatti, ci sentiamo meno portati per le discussioni accademiche e meno interessati all’ortodossia delle scuole di pensiero, quanto piuttosto siamo disposti ad integrare il meglio che proviene dalle varie impostazioni teoriche.
Accettiamo, tanto per parafrasare Freud, di mischiare l’oro puro di qualche tecnica standard col piombo di un’altra forma di intervento, apparentemente incompatibile.
Per gran parte del Novecento, invece, una delle vocazioni principali della scuola psicoanalitica sembra essere stato il distinguere l’ortodossia dall’eterodossia. La Psichiatria, d’altro canto, sfidata dalle proposizioni psicoanalitiche, si è per anni attestata su posizioni negativistiche, tendenti a minimizzare il contributo della psicoterapia nel trattamento dei disturbi mentali.
Per gran parte del Novecento, abbiamo assistito con disagio al contrapporsi di due fronti, neurobiologico e psicodinamico, che svolgevano la propria ricerca in modo nettamente separato, come se l’impostazione di segno opposto non esistesse o fosse tendenzialmente errata.
Lo psichiatra che voleva tener conto di entrambi gli indirizzi era costretto a una forma di eclettismo che lo tagliava fuori da un contesto culturale coerente e omogeneo, diventando un “apolide”, senza appartenenza culturale. La contrapposizione teorica diventò progressivamente scontro ideologico, e ciascun fronte contrapposto si sentì di proporre una visione dell’uomo diversa, allontanandosi dall’ambito medico per equiparare la Psichiatria e la Psicoanalisi a un credo filosofico.
In effetti, la strada giusta sarebbe stata proporre una visione integrata della personalità, senza la necessità di aderire a una teoria, come si fa abbracciando un’idea politica. L’integrazione, oggi possibile dopo il superamento dei riduzionismi anzidetti, non è soltanto un modo per far convergere due aspetti della realtà umana, biologico e psichico, ma anche il lavoro di sintesi tra idee e concetti della psicologia e della pratica psicoterapeutica, che abbiano superato il vaglio dell’esperienza e della validazione clinica.
Il campo dei Disturbi di Personalità, in questo senso, richiede necessariamente la prospettiva di uno sviluppo della personalità e della relativa patologia. Esprimiamo, quindi, l’esigenza di creare un quadro di riferimento metodologico, secondo il quale non è possibile inferire, ovvero illazionare sulla struttura psichica dell’essere umano, senza tener conto di quanto proviene dalle ricerche sperimentali sul neonato e dalle nozioni attuali della neurobiologia.
Negli ultimi anni, infatti, l’entità delle conoscenze neuroscientifiche imprescindibili è diventata così ampia che, per qualsivoglia teorico della mente, è reso più arduo il ricorso alla inferenza intorno alle dinamiche intrapsichiche, ovvero la possibilità di produrre metapsicologie, come ai tempi di Freud. Di conseguenza, diventa possibile, per lo psichiatra che volesse seguire la metodologia medica, partire da una fisiologia della mente per poi approdare ad una psicopatologia, considerata come deviazione di una sanità di base.
La diagnosi psichiatrica potrà finalmente accertare, quindi, non tanto le deviazioni da una norma sociale più o meno condivisa, quanto riconoscere le forme attraverso le quali si manifestano l’equilibrio patologico e i suoi eventuali scompensi, avendo come punto di riferimento, non il semplice comportamento, ma il grado evolutivo della personalità. La valutazione globale della personalità servirà a stabilire il rapporto tra struttura ed evento ambientale, al fine di ricostruire la dinamica della crisi o la progressiva strutturazione di un equilibrio patologico.
Volendo così procedere, uno psichiatra del nostro tempo si trova nella necessità di operare una sintesi e tentare di ricomporre la dicotomia operante nel secolo scorso, tra psicogenesi e biogenesi dei disturbi mentali, evitando di rimanere intrappolato in un eclettismo pratico, per non essere stato capace di risolvere una scissione presente nei presupposti teorici.
Ecco perché, senza la pretesa di far nascere una nuova teoria, proponiamo un metodo, ossia una procedura secondo la quale lo sviluppo della personalità si svolge a partire da una base comune genetico-neuropsicologica che chiamiamo Protomentale.
Il riferimento a Bion (1952), pur senza sottoscrivere in toto la teoria bioniana, non si limita al semplice configurare una base prelogica e presimbolica che precede la nascita del pensiero ma si estende, come vedremo, al modo di intendere l’instaurarsi di un’attività di pensiero, intesa come trasformazione di elementi protomentali in identità mentale originale del Sé.

Lo sviluppo della personalità
Prima di esporre il nostro quadro metodologico, sentiamo però l’esigenza di confrontarci con quanto la psicologia e la psicoanalisi ci hanno proposto finora sul tema dello sviluppo della personalità. Lo faremo, ovviamente, in modo sintetico, rimandando ad ulteriori lavori l’approfondimento necessario, ma senza perdere di vista l’essenziale di un confronto irrinunciabile con la ricerca attuale.
Il tenere conto della ricerca attuale servirà a diminuire al massimo la quota di inferenza che richiede un discorso intorno allo sviluppo della personalità, fin dai primi momenti di vita. La libertà di inferenza, infatti, ha esaltato gli indirizzi psicogenetici, e ha permesso, all’interno dei medesimi, il mantenimento di pregiudizi e contraddizioni, che si sono perpetuati a causa del tenore fideistico delle adesioni ad una determinata teoria psicodinamica. Un esempio eclatante di questo sta nel cosiddetto patomorfismo, ovvero la tendenza ad equiparare le prime fasi dello sviluppo della personalità alle condizioni psicopatologiche più gravi, che pertanto vengono poste alla base dello sviluppo stesso, come punti di partenza verso i quali si può regredire.
Un altro esempio è l’adultomorfismo, cioè la proiezione sul neonato e sul piccolo bambino di aspetti della psicologia dell’adulto, con il risultato di anticipare la comparsa dello sviluppo, perdendo di vista la condizione originale dell’infante, diviso tra potenzialità inespresse e necessità supportive.
Al momento attuale, per esempio, i dati dell’infant research e dell’etologia oppongono la concretezza dell’evidenza all’impianto della teoria delle pulsioni e alla concettualizzazione del narcisismo primario di Freud.
Senza volere entrare nel merito delle critiche motivate alla teoria freudiana (Eagle, 1984) e alla psicologia dell’Io che ne deriva direttamente, potremmo dire che la ricerca sperimentale e neurobiologica ha sicuramente dimostrato l’infondatezza dell’idea di un autismo infantile primario e della costruzione dell’Io come opposizione a una presunta tendenza istintiva al distacco oggettuale. Inoltre, è stato destituito di fondamento anche il cardine della teoria pulsionale freudiana che faceva dipendere l’inizio della relazione da una spinta alla scarica, sotto la diretta influenza del cosiddetto principio del piacere, ovvero un inizio parassitario della relazione oggettuale, giustificata da istinti di sopravvivenza e solo in seguito valorizzata come ricerca oggettuale (modello anaclitico).
Sul versante neurobiologico, poi, la dicotomia tra natura e cultura, essenziale al riduzionismo, è crollata, man mano che si sono presentate prove inconfutabili sul fatto che “le interazioni con l’ambiente, e in particolare i rapporti con gli altri, esercitano un’influenza diretta sullo sviluppo delle strutture e delle funzioni cerebrali”. (Siegel, 1999)
In campo psicodinamico, d’altro canto, il ruolo determinante attribuito all’ambiente dalle ricerche sperimentali nel condizionare lo sviluppo mentale ha confermato la rilevanza della cosiddetta teoria delle relazioni oggettuali. Quest’ultima, in particolare, rifiuta la teoria delle pulsioni freudiana, con la celebre affermazione di Fairbairn (1952) che “…la libido non è primariamente una ricerca di piacere, ma una ricerca di oggetto.”
Quanto detto da Fairbairn sintetizza un modo di intendere lo sviluppo della personalità per il quale il patomorfismo, con cui alcuni teorici della psicoanalisi tendono a presentare la nascita psicologica del bambino, non è che un modo di rendere fisiologica la manifestazione di una relazione primaria mal riuscita. Tuttavia, il vezzo psicoanalitico di distinguere oggetti interni da oggetti esterni ha fatto perdere alla proposizione di Fairbairn la sua originale capacità di connettere il campo dell’esperienza materiale con il campo dell’elaborazione mentale.
Il concetto di fantasia interna si è imposto come l’aspetto più rilevante della dinamica intrapsichica e interpersonale, spingendo a tralasciare la consistenza del reale. Potremmo dire che l’oggetto di relazione, appena individuato, sia stato perso con l’ipervalutazione delle esperienze soggettive e l’inferenza interpretativa sugli stati interni della personalità.
Lo stesso Fairbairn, e soprattutto Melania Klein e la sua scuola, al fine di convalidare una ricerca e una teorizzazione sugli oggetti interni, hanno fatto ricorso al postulato di un Io presente fin dalla nascita, il quale andrebbe incontro a vicissitudini varie in relazione all’ambiente.
Benché il freudismo, e solo in parte il kleinismo, tendono a far coincidere il cosiddetto Io incipiente con l’inconscio, ci sono tuttavia delle distinzioni che mostrano quanto il dibattito sull’origine della mente derivi, in qualche modo, dal contrasto di dottrine filosofiche millenarie come l’empirismo e lo spiritualismo.
Freud, senza dubbio, nel tentativo di collocare la sua teoria nel solco delle scoperte biologiche darwiniane, postula un Es indifferenziato e frammentato, “crogiuolo di eccitamenti ribollenti” (1915), che esprime un potenziale istintivo e caotico, dal quale deriverebbe un Io frutto del compromesso con l’ambiente, e futuro arbitro delle pulsioni, cioè dei rappresentanti psichici dell’Es istintivo.
Filogenesi e ontogenesi si fondono nel pensiero di Freud; cosicché il neonato somiglierebbe pressappoco all’uomo di Neanderthal e si umanizzerebbe per via dell’adattamento, rimanendo nel fondo un po’ animale. Secondo Freud, quindi, lo sviluppo della personalità corrisponde all’incremento della capacità di controllo su istanze cieche istintive che tendono alla scarica liberatoria, secondo il principio del piacere.
Il kleinismo, pur opponendosi alla teoria pulsionale di Freud, tende a proporre una visione adultomorfica del neonato, il quale fin dai primi giorni di vita si troverebbe ad avere un Es, un Io e un Super-Io, così da instaurare dinamiche edipiche precoci.
Il riconoscimento di un Io psichico alla nascita, benché incipiente e primitivo, serve a sottolineare l’originalità della specie umana ma lascia inalterata la scissione mente-corpo, allontanando lo sviluppo della personalità da considerazioni di natura biologica, necessarie per collegare l’evoluzione mentale alla maturazione del substrato organico.
Se Freud rischia di considerare il biologico come una specie di atavismo pulsionale, che persiste tutta la vita e mantiene costante il conflitto interno tra tendenza a scaricare e apparato di controllo, ossia tra natura e cultura; “…secondo la Klein (1930, 1935) il Sé del bambino è, sin dall’inizio, continuamente esposto alle minacce di distruzione interna provenienti dall’azione della pulsione aggressiva.” (Fonagy, 2001). La pulsione di cui parla la Klein è costituzionale e si attiverebbe nell’incontro con l’oggetto, determinando la comparsa di esperienze fantastiche, nelle quali la realtà è poco rilevante e il mondo interno prende il sopravvento.
Si può dire, quindi, che la Klein pone la base biologica dello sviluppo della personalità nell’innatismo dell’istinto di morte, che alla nascita diventa pulsione, ovvero il motore primo delle fantasie che compongono il mondo interno del neonato.
Freud, invece, lascia nell’Es frammentato e tendente alla scarica quel tanto di natura materiale che, secondo lui, l’Io per tutta la vita tenterà di dominare.
Non c’è dubbio che i due modi anzidetti di intendere l’origine della psiche sono tentativi di conciliare ipotesi empiriste e spiritualiste, tentativi, cioè, di speculare sullo sviluppo della personalità mantenendo il contatto con una materia vivente, vista come realtà instabile e frammentata.
Ancora più radicale il tentativo di Fairbairn (1952) di ipotizzare una “originaria struttura egoica unitaria” che, in seguito ad esperienze di rifiuto, deprivazione, frustrazione, eccitazione, va incontro a frammentazione e deformazione (Lago, 2002).
L’appello a qualcosa di unitario e coeso ab initio permette di spiegare lo sviluppo della personalità come la facilitazione o il blocco di una tendenza naturale fisiologica, facendo acquisire rilevanza alle relazioni oggettuali che lo determinano. Contare su un “Io dinamico unitario” alla nascita, in grado di svilupparsi secondo un piano fisiologico naturale, sotto l’esperienza dei rapporti oggettuali postanatali, è sicuramente l’uovo di Colombo dell’ipotesi psicodinamica di Fairbairn; discorso che ha preso piede anche negli sviluppi più recenti della cosiddetta psicoanalisi relazionale (Mitchell, 2000).
Quella che potremmo definire ipotesi dell’Io alla nascita, anche se un Io potenziale e in via di sviluppo, si lascia alle spalle i complicati sistemi evolutivi freudiano e kleiniano.
Il sistema freudiano, infatti, si basa sulla contrapposizione Es-Io, laddove l’Es rimane per sempre il portato di istanze biologiche, mentre l’Io, che compare in forma definitiva alcuni anni dopo la nascita, dovrà cavalcare, come nella celebre metafora, l’Es per tutta la vita.
Il sistema evolutivo kleiniano, in fondo, riduce al minimo la rilevanza del biologico, ponendo la contrapposizione Es-Io fin dalla nascita e occupandosi solo del mondo interno, costituitosi ab initio per l’intensa attività fantasmatica del neonato, con l’unica dipendenza dall’innatismo biologico della pulsione di morte.
Fairbairn e i suoi epigoni sono più sbrigativi; l’ipotesi dell’Io alla nascita conferisce una capacità dinamica al neonato e ne stabilisce la soggettività, per cui non è rilevante solo il mondo interno ma innanzitutto il campo della relazione intersoggettiva, clinicamente più verificabile e in accordo con le ricerche sperimentali condotte fin dai primi anni Cinquanta, che hanno convalidato la teoria dell’attaccamento di Bowlby e confutato gli impianti metodologici delle teorie dello sviluppo freudiana e kleiniana.
Tuttavia, allo stato attuale, l’ipotesi dell’Io alla nascita rimane un assunto di base difficile da dimostrare; anzi, quanto più serve a sostenere un impianto teorico dello sviluppo della personalità di tipo esclusivamente psicodinamico o interpersonale, tralasciando la fondamentale importanza dello sviluppo neurobiologico neonatale dei primi due anni di vita (Balbi, 1999), tanto più reintroduce l’adultomorfizzazione dell’infanzia e la “tendenza a caratterizzare i primi stadi dello sviluppo normale in termini di…successivi stati di psicopatologia” (Peterfreund, 1978).
In questo senso, le recenti ipotesi dell’infant research (Beebe, Lachmann, 2002) basate sull’osservazione diretta del neonato, pongono l’accento sulle potenzialità della mente infantile ma, nello stesso tempo, impediscono di formulare alcun tipo di “originaria unitarietà dinamica” di un Io della nascita, in quanto ogni potenzialità infantile non può fare a meno del supporto fondamentale e determinante di un caregiver sufficientemente valido (Winnicott, 1962). Inoltre, partire come propone Fairbairn da un “Io dinamico unitario” piuttosto mitico e incontaminato, per spiegare la scissione dell’Io quale processo disintegrativo dovuto alle relazioni insoddisfacenti, inserisce nello sviluppo della personalità il “perseguimento di motivazioni di ordine superiore” (Eagle, cit.), ovvero un principio moralistico o di natura religiosa che mal si accorda con la progressione dello sviluppo, fortemente condizionata, almeno fino ai due anni di età, da fattori biologici.
Per sintetizzare un discorso che meriterebbe un’analisi più estesa, l’Io unitario alla nascita (Fairbairn), con caratteristiche adultomorfiche rappresentate da un mondo interno ricco di fantasie e conflitti (Melania Klein), con scissioni e identificazioni che sopravvengono a causa di relazioni primarie insoddisfacenti (Fairbairn, Guntrip), potrebbe appartenere a una concezione etico-religiosa dello sviluppo della personalità, rilanciando in termini filosofici l’idea di un’entità spirituale preformata e integra, che si “macchierebbe” nel contatto con le esperienze della vita materiale, mantenendo però la prerogativa di recuperare l’integrità perduta a certe condizioni, tra cui la psicoterapia.
Le attuali conoscenze non mancano di segnalarci quanto sia fuorviante e arbitrario concepire un’integrità originaria dell’Io, come pure attribuire capacità dinamica e creativa alle pulsioni o alle presunte fantasie inconsce del neonato.
Anziché ipotizzare una pulsione o fantasia adultomorfica alla nascita, appare più plausibile considerare la reazione al trauma della perdita dell’ambiente intrauterino caldo e accogliente (Rank, 1924) come ricerca istintiva immediata di una fonte altrettanto calda e protettiva nella vita extrauterina. Questo fenomeno innato e costante esordisce, a nostro avviso, come stato fisico, necessario perché il neonato si senta sicuro, mantenendo un livello desiderato di prossimità con il caregiver.
La teoria dell’attaccamento di Bowlby spiega questa fase neonatale, confutando il pensiero adultomorfico di Fairbairn, basato sul fatto che il neonato ricerchi primariamente l’oggetto. Il neonato, secondo Bowlby, cerca il raggiungimento di uno stato fisico di sicurezza, mediato da istanze biologiche, cui solo successivamente si aggiunge uno stato affettivo di natura psicologica (Fonagy, cit.), quando, diciamo noi, si siano messi in atto i movimenti trasformativi specie specifici che, grazie alla complessità del cervello umano, portano alla formazione del pensiero innanzitutto inconscio.
Il criterio metodologico che noi proponiamo per inquadrare lo sviluppo della personalità prevede una base di partenza in cui non esiste differenziazione tra mente e corpo, tra mondo esterno e mondo interno. Abbiamo chiamato protomentale questa base di partenza della personalità.
Il protomentale è la condizione oggettiva e soggettiva del neonato nel periodo che va dalla nascita alla comparsa del pensiero simbolico, ovvero del pensiero verbale. Lo sviluppo di cui parliamo non è fatto certo di passaggi immediati né si può selezionare in momenti definiti che subentrano ad altri con precisione assoluta. Ecco perché preferiamo parlare di metodologia dello sviluppo, cioè cerchiamo di definire le linee di tendenza, sapendo che i passaggi da una condizione all’altra comportano la sovrapposizione e l’affiancamento di stadi evolutivi per periodi più o meno lunghi, legati alle peculiarità individuali. Per spiegare l’avanzamento dello sviluppo, teniamo conto sia della complessità della mente biologica, intesa come substrato organico evolutivo, sia della mente relazionale (Siegel, 1999), ossia della modalità evolutiva interpersonale della struttura biologica.

[..]Dopo la nascita, le componenti ambientali influenzano in maniera importante la formazione delle connessioni sinaptiche (Goldsmith et al., 1997), e per i neonati e i bambini molto piccoli le relazioni di attaccamento rappresentano la fonte primaria delle interazioni con il mondo esterno durante le fasi di massima crescita del loro cervello. I genitori e le altre figure di attaccamento diventano quindi gli artefici principali dei processi con cui le esperienze del bambino influenzano lo sviluppo – geneticamente programmato ma ‘esperienza-dipendente’ – del suo cervello. Il potenziale genetico viene espresso all’interno di esperienze sociali, che esercitano effetti diretti sulle modalità con cui le cellule nervose vengono collegate fra loro: in questo modo, le ‘connessioni’ umane portano alla creazione di connessioni neuronali.[..] (ivi)

Ciò che noi chiamiamo protomentale ha a che fare soprattutto con questo primo periodo della vita nel quale, sia la teoria delle relazioni oggettuali, sia la teoria dell’attaccamento, sia l’infant research, sia la neurobiologia, convergono nell’attribuire un ruolo fondamentale alla relazione neonato-caregiver (Fonagy, Siegel, Beebe e Lachmann, cit.)

I livelli mentali dello sviluppo
Per esprimere, in termini psicodinamici, i passaggi evolutivi della personalità dalla base di partenza del protomentale in poi, ci serviamo del concetto di trasformazione, così come ci viene proposto da Bion (1965).
Il processo trasformativo che ci interessa evidenziare per spiegare ciò che intendiamo per sviluppo della personalità, consiste in uno scambio interattivo che avviene tra il neonato, sopraffatto da impressioni emotive e affettive provenienti dal mondo esterno, e il caregiver che, contenendone dinamicamente gli stati emotivi, e riconoscendone e riflettendone la comunicazione non verbale, permette una interiorizzazione ed elaborazione di esperienze concrete e la loro trasformazione in pensiero.
L’accento va posto, quindi, sulla funzione interattiva e diadica del processo di interiorizzazione, secondo le evidenze dell’infant research (Beebe, Lachmann, cit.); ma anche sulla funzione trasformativa (Bion, cit.) la quale, una volta interiorizzata dal bambino, renderà quest’ultimo indipendente dal caregiver, ossia in grado di pensare a se stesso in relazione con l’ambiente. Il raggiungimento di questa autonomia di pensiero corrisponde con la capacità simbolica, che si esplica innanzitutto attraverso l’evoluzione della memoria, e perviene in ultimo alla realizzazione del pensiero verbale.

[...]La formulazione bioniana ha molto in comune con la sistematizzazione della relazione di attaccamento come veicolo primario per l’acquisizione della regolazione emozionale…il modello bioniano…del contenimento assume che il bambino interiorizzi la funzione di trasformazione esercitata dal caregiver e attraverso tale interiorizzazione acquisisca la capacità di contenere o regolare i propri stati affettivi negativi. Winnicott (1953) sostiene e ribadisce che la funzione simbolica si sviluppa nello spazio transizionale tra bambino e caregiver[...]. (Fonagy, cit.)

Nello spazio transizionale si esplica quella che Bion chiama funzione di revérie da parte del caregiver, letteralmente la funzione di permettere al bambino la formazione di immagini oniriche, frutto di trasformazione mentale delle impressioni emotive e affettive della veglia.
L’idea da noi sostenuta, ispirandoci a Bion, è quindi quella che i livelli mentali dello sviluppo della personalità siano almeno tre:
Il protomentale, ossia il compromesso tra tendenze innate e adattamento primario, comprendente l’attaccamento al caregiver e l’interiorizzazione come regolazione interattiva, che in seguito si trasforma in autoregolazione, ciò che, secondo Bion, è l’interiorizzazione della funzione di revérie della madre, che diventa poi funzione alfa del bambino (Bion, 1962). Il protomentale è costituito da stati interni legati all’interazione madre-bambino. Si tratta di sequenze d’azione ripetute e impresse nella memoria procedurale, “codificate in forma non simbolica, le quali influenzano i processi organizzativi che guidano il comportamento.” (Beebe e Lachmann, cit.). La memoria procedurale o implicita che fissa gli elementi del protomentale è detta anche memoria emotiva, con sede in alcune aree del sistema libico, come l’amigdala, oppure nei nuclei della base e nella corteccia motoria (memoria comportamentale), oppure nella corteccia percettiva (memoria percettiva). (Siegel, cit.). Con la comparsa dei due livelli mentali più evoluti, il protomentale si riduce progressivamente, fino a rimanere fissato in una quota di base (la base sicura di Bowlby) che, collocandosi nel confine mente-corpo, costituisce un aspetto costante della personalità, garanzia di stabilità e sviluppo, e sta a significare, altresì, la storia emozionale-affettiva inconscia del soggetto.
Il pensiero inconscio, ossia la forma prelogica e prelinguistica che si esprime in maniera non verbale. Gli elementi emotivi e affettivi che compongono il protomentale, contenuti e organizzati, prima grazie alla madre, poi per l’interiorizzazione della funzione di revérie materna, vanno a configurare immagini e rappresentazioni di sé e dell’altro da sé, oppure a produrre configurazioni originali, frutto della creatività del soggetto, cioè fantasie. Già in questa modalità trasformativa, possiamo individuare il processo di mentalizzazione il quale, non consiste solo in un’attività di organizzazione e coesione di elementi slegati, ma consiste anche nell’esercizio di una capacità creativa, tipicamente umana, in grado di partire da esperienze concrete per giungere a forme elaborate di pensiero. Immagini e fantasie spesso si mischiano e si sovrappongono, come nel pensiero onirico. Sia le une che le altre sono legate alla memoria semantica (che include la conoscenza di dati, parole, simboli) e alla memoria episodica (che contiene informazioni concernenti episodi o eventi autobiografici e le loro relazioni spazio-temporali). Oltre alle immagini e alle fantasie, negli elementi del sogno degli adulti possono anche comparire aspetti del protomentale, sia come portato di un disturbo del pensiero, sia come forma presimbolica regressiva non patologica, che esprime emozioni e affetti legati alla tematica dell’attaccamento. Gli elementi del pensiero inconscio sono forme prelinguistiche ma non presimboliche. Il simbolo è già presente nella elaborazione esplicita per immagini della rappresentazione di sé e dell’altro da sé. Quindi, non si tratta di simbolo verbale ma di configurazione, cioè di elemento formale che può assumere, come accade nei sogni, aspetti spaziali e geometrici, temporali e musicali, o semplicemente di ordine iconografico e narrativo (Meltzer, 1984). Le ricerche neurobiologiche confermano che l’elaborazione esplicita dei ricordi si localizzi, con una certa precisione, nella zona dell’ippocampo. Il pensiero inconscio è tale perché rimosso e organizzato nelle espressioni latenti: sogni, fantasie, lapsus, sintomi isterici. A differenza della quota protomentale di base, che rimane inconscia, in quanto non trasformabile per definizione, il pensiero inconscio può essere richiamato alla coscienza e verbalizzato nell’interpretazione.
Il pensiero verbale, ossia la forma logica e linguistica che serve a comunicare con l’altro da sé o a manifestare una conoscenza a se stessi e oggettivarla nel mondo esterno. Strumento del pensiero verbale è la parola incarnata (Merleau-Ponty, 1960), cioè la fusione dei tre livelli mentali: protomentale, pensiero inconscio, pensiero verbale. La parola incarnata permette che i simboli verbali abbiano quel senso che “nasce ai margini dei segni…appare solo all’intersezione e come negli intervalli tra le parole…”sicché “…il nostro pensiero è sparso nel linguaggio.” (ivi)
Il pensiero verbale non è solo l’applicazione logica del linguaggio descrittivo, ossia non può essere limitato alla mera funzione di “utensile comunicativo”. Il pensiero verbale è soprattutto espressione della creatività umana, che si manifesta nella costruzione e dimostrazione di idee innovative, nell’ideazione poetica, nelle forme artistiche in genere. Anche l’uso del corpo in termini artistici o rappresentativi si può includere nel pensiero verbale.
Gli elementi necessari per l’espressione del pensiero verbale consistono quindi in: fantasie di veglia, forme artistiche figurative e musicali, immagine corporea, scrittura, voce. Anche se gli elementi elencati non costituiscono in sé il pensiero verbale, la loro presenza è necessaria perché nella parola scritta o vocale possano realizzarsi le capacità specie specifiche più elevate dell’uomo, che si esprimono nella scienza e nell’arte.

I disturbi del pensiero
Da questo sintetico quadro metodologico di sviluppo della personalità, possiamo far scaturire una formulazione dei Disturbi di Personalità come disturbi del pensiero.
I disturbi del pensiero sono quindi delle alterazioni dello sviluppo e della maturazione completa della personalità, la quale deve disporre, per funzionare, dell’efficienza e interrelazione dei tre livelli mentali su esposti.
Valutando livello per livello, potremo riconoscere una specificità nei disturbi del pensiero.
Nel livello protomentale, è fondamentale l’interiorizzazione della funzione di revérie nella relazione neonato-caregiver. I disturbi di questa relazione produrranno un arresto nel processo di mentalizzazione e la creazione di un pensiero inconscio non omogeneo, di volta in volta deformato fino alla frammentazione, dalla presenza di elementi concreti legati a impressioni emotivo-affettive, che non si integrano nel pensiero inconscio a causa di un difetto di capacità trasformativa. Il difetto di mentalizzazione è evidente nei Disturbi di Personalità e può essere rappresentato dalla quota di attività protomentale in eccesso rispetto a una modalità normale di funzionamento. Una prova dell’attività protomentale anomala sta nel tasso di instabilità, nel mancato controllo degli impulsi, nella sregolazione dell’umore, nella disforia, tutti presenti in maniera costante nei Disturbi di Personalità.
Il difetto di trasformazione delle esperienze emotivo-affettive si fa notare nel pensiero inconscio, quale difficoltà di configurazione di immagini e rappresentazioni di sé e dell’altro da sé, nonché nel difetto di fantasia, cioè nella carenza di un’attività spontanea creativa di elaborazione di immagini.
L’attività onirica nei Disturbi di Personalità rivela il disturbo del pensiero inconscio, che si manifesta sia con la produttività quasi assente, sia con un difetto di coerenza narrativa e formale, a causa della deformazione dovuta alla presenza di elementi non elaborati provenienti dall’attività protomentale in eccesso.
Il pensiero verbale conosce anch’esso varie deformazioni, a seconda della gravità del Disturbo di Personalità. Con il termine fatuo, definiamo aspetti del linguaggio e dell’espressione che ci fanno risalire al disturbo del pensiero sottostante (Lago, 2001). Il pensiero fatuo potrà essere definito di volta in volta, vuoto, manierato, imitativo, incompleto.
La valutazione trasversale dei disturbi del pensiero, lungo i tre livelli mentali proposti, permette di individuare le forme di intervento più appropriate per il Disturbo di Personalità in questione.

La Psicoterapia Psicodinamica Integrata
Con La Psicoterapia Psicodinamica Integrata, proponiamo un intervento ordinato sui tre livelli mentali, ovvero:

- protomentale
- pensiero inconscio
- pensiero verbale

L’intervento biologico attraverso i farmaci assume, in questa metodica, la funzione di contenere la produzione di elementi emotivo-affettivi non mentalizzati e di riequilibrare la sintonia mente-corpo. Il contemporaneo uso della parola che ricostruisce e interpreta, nel contesto di una relazione empatica, può consentire lo stabilirsi innanzitutto di una funzione vicariante di trasformazione in pensiero del protomentale in eccesso, contribuendo ad arricchire di immagini e fantasie il pensiero inconscio del paziente.
La relazione terapeutica, comprendente anche l’uso dei farmaci, avrà quindi l’obiettivo di ristabilire la sanità di base, fornendo una nuova opportunità di esperienza sicura di attaccamento e favorendo un buon livello di mentalizzazione, fino alla perdita della fatuità di linguaggio e l’acquisizione di un pensiero verbale coerente.

B I B L I O G R A F I A
Balbi A. (1999) Reti neurali, sistema libico e mondo pre-simbolico: esperienze affettive precoci e biologia nella formazione della mente umana. Psich. Psicoter. Analitica, 18:4: 311-325

Beebe, Lachmann (2002) Infant research e trattamento degli adulti. Cortina, Milano 2003

Bion W. (1952) Esperienze nei gruppi. Armando, Roma 1971

Bion W. (1962) Apprendere dall’esperienza. Armando, Roma 1988

Bion W. (1965) Trasformazioni. Armando, Roma 1973

Bowlby J. (1969) Attaccamento e perdita. Vol. I Boringhieri, Torino 1972

Bowlby J. (1973) Attaccamento e perdita. Vol. II Boringhieri, Torino 1975

Bowlby J. (1980) Attaccamento e perdita. Vol. III Boringhieri, Torino 1983

Eagle M.D. (1984) La psicoanalisi contemporanea. Laterza, Bari 1988

Fairbairn W.R.D.(1952) Studi psicoanalitici sulla personalità. Boringhieri, Torino 1970

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