Saggio sulla paranoia
2019/2020
Riassunto: Si parte dalla distinzione tra reazioni paranoidi e disturbo paranoide di personalità. Si mettono in rilievo tratti come la sospettosità e la diffidenza. Queste sono le precondizioni per lo sviluppo di personalità che in situazioni di scompenso potrebbero reagire in modo paranoide. Si passa all’esposizione della bouffée delirante, cioè la manifestazione acuta del delirio. Si entra nel merito della paranoia secondo Kraepelin e si mettono in evidenza la psicopatologia dei deliri cronici e della paranoia in particolare, fino ad individuare la matrice psicopatologica del delirio.
Per affrontare un tema così complesso, seguiremo l’impostazione con la quale l’anno scorso, in questa rivista, abbiamo affrontato il tema della depressione. In quella sede, dicemmo che per necessità occorre distinguere almeno due ambiti.
[…] Quando si parla di depressione, bisogna operare una distinzione in almeno due ambiti. Primo, occorre distinguere se si tratta di depressione o mal di vivere. Secondo, è necessario stabilire la correlazione tra disturbo dell’umore e disturbo del pensiero. […] Lago 2018, p. 35.
Anche in questo caso, abbiamo individuato in modo sintetico due ambiti, la distinzione dei quali diventa fondamentale sia nella fase diagnostica del disturbo di personalità, sia nella fase terapeutica, e con questo intendiamo l’intervento integrato proposto nel Compendio di Psicoterapia (Lago, a cura di, 2016).
Diremo, quindi, che occorre distinguere l’area del sospetto, ancora intrisa d’angoscia e bloccata nella perplessità e nell’incertezza, dall’area del delirio, ossia di quella dimensione in cui un disturbo del pensiero va incontro a una strutturazione progressiva, fino a diventare sistema delirante.
Naturalmente, cercheremo di fare emergere nel modo più chiaro che cosa si può intendere come delirio nella paranoia. Dovremo risolvere però un’altra dicotomia, sapendo che per parlare di paranoia non è necessario che essa si esprima con il delirio conclamato. Di questa dicotomia, tiene conto anche il DSM-5 (2013) quando continua a distinguere (come i manuali precedenti) il disturbo delirante dal disturbo paranoide di personalità.
Il punto di vista psicodinamico dal quale partiamo ci consente di chiarire una distinzione che ha coinvolto in passato clinici e psicopatologi, e rimane un tema-cerniera in grado di mettere alla prova anche nel presente coloro che si occupano di disturbi mentali.
[…] I concetti di stato paranoide e di paranoia hanno avuto un passato turbolento, e devono affrontare un futuro molto incerto. Nella classificazione ufficiale corrente delle malattie psichiatriche sono inclusi come entità distinte, ma nella pratica clinica reale il compito di stabilire la diagnosi differenziale tra essi e la psicosi schizofrenica o maniaco-depressiva spesso sembra molto faticoso e poco utile. Le difficoltà diagnostiche sono state vinte, in parte, costituendo dei gruppi di compromesso, come le depressioni con tendenze paranoidi, le reazioni paranoidi con tendenze depressive, la schizofrenia paranoide, la personalità paranoide ecc. Ma, quantunque tali compromessi permettano di includere molte situazioni eccezionali che i pazienti manifestano sempre in relazione a classificazioni arbitrarie, esse lasciano adito a parecchia confusione. […] Cameron 1959, p. 709.
Un punto di partenza attuale può essere costituito dalla visione dimensionale della personalità secondo il PDM-2. In questo manuale, la proposizione di un continuum della personalità nel quale collocare i vari aspetti dimensionali non trascura la necessità di garantire un estremo sano e un estremo più compromesso. Ciò vuol dire che da qualche parte (e per qualche motivo) il continuum s’interrompe, dando luogo a una gradazione che si avvale di confini necessari per delimitare e distinguere un livello dall’altro (livello sano, nevrotico, borderline, psicotico (cfr. McWilliams, Shedler 2017).
Il fattore qualitativo
Con quanto sopra, ho voluto sottolineare che a definire i livelli non ci può essere solo un fattore quantitativo, come il riferimento a un continuum farebbe pensare. Il riconoscimento di livelli sta a significare che, pur nei termini di una classificazione dimensionale, esistono degli elementi caratterizzanti e idiosincratici di ciascuna dimensione del continuum, i quali determinano la sovrapposizione di piani (o livelli), ossia la presenza di una scala concettuale, in funzione di aspetti qualitativi e non quantitativi.
Entrando nel tema della dicotomia tra sospetto e delirio, occorrerà sottolineare che stiamo comunque parlando di modi di pensare che si configurano come tali e non di emozioni o affetti che prendono forma dall’immaginazione e dalla dimensione umorale del soggetto. Ossia, ci troviamo dinanzi ad aspetti che hanno perso la loro iniziale carica emotiva per diventare entità cognitive, tipo idee, pensieri, credenze. In che modo? Nel Compendio (cit.), l’abbiamo spiegato, sottolineando una tripartizione mentale che ci permette di comprendere come ciò che perviene ai livelli cognitivi nella personalità abbia un precedente e una base sempre attiva nei livelli emotivi.
[…] L'organizzazione della personalità verrà, quindi, da noi esposta a scopo esplicativo, articolandola secondo tre livelli mentali.
I tre livelli mentali sono i seguenti:
-
protomentale
-
pensiero inconscio
-
pensiero verbale
Studiando lo sviluppo della personalità, sappiamo che c'è un ordine di apparizione di ciascun livello mentale, a partire dalla nascita. Se, invece, come ci siamo proposti, intendiamo presentare un’istantanea della personalità di un soggetto adulto esente da psicopatologia e difetti di sviluppo, vedremo l'articolazione dei tre livelli, presenti in quota diversa ma in modo integrato.
Il termine dimensionale, o quota, può senz'altro valere per il livello protomentale, nel quale è evidente la rilevanza di fattori biologici quantificabili e misurabili.
I due livelli mentali di secondo ordine, come pensiero inconscio e pensiero verbale, non sono quantificabili né misurabili, in quanto costituiti da quelli che le Neuroscienze definiscono qualia, ovvero qualità, contenuti mentali, quindi prodotti, risultato di un lavoro della mente individuale, di cui è possibile valutare le manifestazioni ma è difficile risalire ai processi.
La difficoltà di risalire ai processi del pensiero e spiegarli è stato il rompicapo, e tuttora impegna molta filosofia.
Kant, con il concetto di cosa in sé, aveva invitato i ricercatori a rassegnarsi all’osservazione dei fenomeni, inquadrandoli secondo i ben noti parametri spazio-temporali. Kant (1781) sperava così di allontanare i pensatori dall'inveterata abitudine di individuare un principio assoluto quasi sempre coincidente con la divinità.
Purtroppo, il concetto di inconscio, perfezionato nella mente lungimirante di Freud, finiva per racchiudere proprio quella cosa in sé che Kant aveva consigliato di porre fuori dal campo della ricerca.
Ma se i filosofi non possono negare di essere stati messi in guardia da Kant, psichiatri, psicologi e psicoterapeuti rischiano di cadere nel solito trabocchetto e commettere l'errore di Cartesio. Quest'ultimo, che ovviamente non poteva conoscere Kant, non solo separa nell'uomo la mente dal corpo ma classifica le scienze in due ambiti ben separati: le scienze della natura e le scienze dello spirito.
Cartesio ha un suo modo di risolvere il problema di come la mente naturale, corporea, emotiva dell'uomo (res extensa) si connette con la mente concettuale, cognitiva, simbolica (res cogitans); egli ricorre al mito dell'homunculus, ovvero una piccola riproduzione dell'uomo stesso che, dalla ghiandola pineale del cervello, esercita la vista interiore che travalica la conoscenza oggettiva.
Oggi, per fortuna, non sono pochi i filosofi e i neuroscienziati, a partire da Antonio Damasio (1994), che evitano di cadere nell'errore di Cartesio.
In psicoterapia, invece, l'inconscio e il pensiero sembrano ancora cose in sé, che solo il rappresentante concettuale dell'homunculus, ovvero l'anima più o meno spirituale riesce a cogliere.
In psicoterapia, non sussiste però, a nostro avviso, unicamente l'errore di Cartesio. La speculazione sulla mente ha creato dei contenitori, non fittizi, non convenzionali, ma strutturali, tali come Es, Io, Super-io, mondo interno, mondo esterno, ai quali viene attribuito un significato assoluto per cui risultano essere cose e non involucri a perdere come dovrebbero.
Qualcuno dirà, quindi, che la tal cosa si trova nell'inconscio, nella coscienza, nel Super-io, nell’oggetto interno, dando a intendere che non di processi dinamici, ossia fluttuanti e momentanei, si tratta ma di cose in sé, strutture consolidate e scontate della personalità umana.
Il nostro parere è diverso. Quando parleremo di livelli mentali di secondo ordine, ossia sostanzialmente di pensiero, non lasceremo la base neurofisiologica di partenza, se non per dare un nome a qualcosa che accade nella complessità del cervello e si esprime istantaneamente, ovvero non precede l'azione necessariamente, come il progetto dell'architetto precede la casa, ma si organizza lì per lì, a partire da elementi precedenti che costituiscono le premesse dell'atto del fare o del parlare e, soprattutto, che nessun homunculus riunisce o assembla secondo un processo prestabilito. […]
[…] Che cosa ne sarà del protomentale a sviluppo adulto completato?
Con la comparsa dei due livelli mentali più evoluti, il protomentale si riduce progressivamente, fino a rimanere fissato in una quota di base, la quale collocandosi nel confine mente-corpo, costituisce un aspetto costante della personalità, garanzia di stabilità e sviluppo, testimonianza della storia emozionale affettiva inconscia del soggetto.
Perché il protomentale permanga nella quota di base, compatibile con l'equilibrio di una personalità adulta normale, occorre che gli elementi emotivi e affettivi, frutto della relazione dinamica immediata con l'ambiente, siano continuamente organizzati e, grazie al pensiero simbolico, trasformati in rappresentazioni mentali, ossia in contenuti psichici dotati di stabilità e in grado di consentire al soggetto la giusta distanza dagli oggetti materiali e dalle proprie esperienze emotive, consentendo così una relazione corretta con la realtà.
La funzione riflessiva o mentalizzazione, ovvero l'operazione che porta alla formazione di rappresentazioni mentali, dapprima viene esercitata con l'aiuto del caregiver, il quale rimanda al neonato la sua risposta rassicurante. Il bambino, crescendo, acquisirà la funzione riflessiva, sul modello della mentalizzazione materna. Ciò significa che le rappresentazioni mentali del bambino, dopo il secondo anno di vita, nasceranno nel contesto della relazione di attaccamento, instaurata alla nascita. Il risultato sarà che la prima rappresentazione simbolica di sé sarà una rappresentazione mentale di sé e dell'altro da sé (Kernberg, 1976), ossia il prodotto sintetico e inscindibile di una relazione affettiva.
Quanto sopra dimostra che le prime forme simboliche sono inconsce, in quanto rappresentazioni, ovvero rappresentazioni mentali di sé e dell'altro da sé, che si imprimono nella memoria esplicita del soggetto, la quale comincia a configurarsi intorno al secondo anno di vita e permette come si diceva, la costituzione del sé autobiografico.
Il nostro soggetto adulto, allora, possiede un livello protomentale, in quota di base, e un pensiero inconscio, ossia un livello mentale di secondo ordine, in grado di operare la mentalizzazione delle esperienze emotivo-affettive del momento, connettendole alle rappresentazioni mentali di sé e dell'altro da sé, cioè al sé autobiografico, e trasformandole a loro volta in rappresentazioni mentali.
Perché si realizzi in modo adeguato il processo di mentalizzazione, occorre che le rappresentazioni mentali, frutto della elaborazione mentale delle relazioni significative, si possano configurare in altro modo, seguendo una tendenza sintetica creativa che dà luogo alla formazione di fantasie, ossia di rappresentazioni relativamente indipendenti dall'effettiva esperienza di interazione con l'ambiente. […] Lago, a cura di, 2016 cit., p. 68-70.
Dicotomia tra sospetto e delirio
Riprendiamo il discorso sulla dicotomia tra sospetto e delirio, considerando che nel primo troviamo ancora l’incertezza e la vaghezza di un’ipotesi, anche se già strutturata in senso cognitivo: il sospetto non è più solo un sentimento ma è diventato idea, visione del mondo, ovvero è stato legato a un elemento esterno (circostanza, persona, fatto etc.) che concentra e indirizza l’attenzione del soggetto. Quest’ultimo, abbandonata la sua eventuale indifferenza nei confronti dell’esterno, ora pone fuori di sé elementi propri emotivo-affettivi (protomentali) non elaborati e li confonde con ciò che non gli appartiene e che ha una sua autonomia (altro da sé). Questo impatto esprime la dinamica proiettiva, così come la spiega la psicoanalisi classica, ma ci porta a prendere atto di un conflitto nel quale il soggetto sospettoso si trova invischiato: conflitto che gli procura un vissuto dal quale potrebbe essere sommerso per un periodo imprecisato. Cioè, il soggetto che nutre il sospetto diventa diffidente nella relazione con l’esterno: ecco perché il sospetto indica la proiezione ma la diffidenza indica il conflitto ormai aperto con la realtà. Egli soppesa con sempre maggiore attenzione e si sforza intellettualmente di uscire dal labirinto dell’incertezza e della paura ma il problema rimane irrisolto, come irrisolto è il conflitto slatentizzato tra il livello protomentale immaturo e non mentalizzato e il tentativo di ricorrere al pensiero verbale per neutralizzare i vuoti e le carenze del pensiero inconscio. Detto in altri termini, il soggetto ricorre alla ragione e al linguaggio per risolvere un conflitto doloroso che progressivamente si tinge di angosce persecutorie. La diffidenza riscontrata nei soggetti sospettosi, affetti da una gradazione medio-lieve di un disturbo di personalità paranoide può rappresentare una prima cristallizzazione del giudizio e una istanza che irrigidisce e circonda come un baluardo la modalità interattiva, creando per apposizione intorno a sé una barriera protettiva ingiustificata e improntata alla prevenzione di ciò che viene considerato come minaccia del proprio equilibrio difensivo.
Per sottolineare la caratteristica cognitiva della diffidenza, ci appoggiamo su quanto scriveva un giovane Eugen Bleuler.
[…] nella diffidenza, gli affetti ci appaiono del tutto secondari. Possono essere qualitativamente e quantitativamente molto diversi, possono anche mancare, senza che la diffidenza sparisca o sia alterata. Se invece elimino la conoscenza, cioè il processo intellettuale, non resta alcun affetto unitario che possa essere indicato come diffidenza.
La diffidenza deve pertanto essere un processo intellettuale, non affettivo. Il termine diffidenza non significa altro che l’impossibilità di prevedere con certezza, ma ancor più di escludere, il verificarsi di un evento che normalmente si ritiene in qualche maniera spiacevole. Supporre, sapere, credere, attendersi, dubitare, rendersi conto, essere certi, intuire, attribuire a qualcuno una possibile azione sono processi posti sullo stesso livello. […] p. 71
[…] Se nella diffidenza penso solo ai fatti che la giustificano, l’affetto negativo è dominante; si riduce invece se nel momento successivo, basandomi sulle medesime conoscenze oggettive, porto in primo piano, per ragioni esterne o interne, i motivi a favore della certezza. Lo stesso vale per la speranza. L’affetto oscilla di qua e di là, ma non spontaneamente, bensì in modo corrispondente ai processi intellettuali. […] p. 72-73
[…] il paranoico, nella malattia conclamata, non è per nulla dominato dalla diffidenza. […] Se è vero che non tutti i paranoici sono diffidenti, possiamo anche osservare all’inverso che molti individui fortemente diffidenti non diventano mai paranoici. […] La paranoia può dunque svilupparsi anche senza diffidenza e l’esagerata diffidenza non porta necessariamente alla paranoia. La paranoia deve pertanto avere un’altra radice. […] La diffidenza non è un affetto. La paranoia, per il suo decorso completamente diverso, non può essere accomunata alle vere e proprie psicosi dell’affetto. Accanto alla diffidenza, nella maggior parte dei perseguitati compare anche una anormale fiducia nei confronti di alcune persone. I paranoici con deliri di grandezza e deliri analoghi non sono per nulla esageratamente diffidenti. Anche nella paranoia persecutoria la diffidenza ha un ruolo spiccato solo all’inizio della malattia, e neppure sempre; nella paranoia conclamata, invece, si trova in primo piano un sapere incrollabile e impossibile da mettere in dubbio (l’idea delirante). La diffidenza non conduce a questo tipo di certezza, piuttosto contrasta con essa. […] Bleuler 1906, p. 77-78.
La diffidenza appare, quindi, come vissuto conflittuale, nel quale una certa sospettosità si fissa su qualcuno o su qualcosa determinando un pensiero negativo, sulla base di affetti che secondariamente aumentano o diminuiscono quello che è comunque un crogiolo intellettivo, ovvero un’idea di pericolo, di danneggiamento, sostanzialmente persecutoria ma non ancora strutturata e orientata come avviene nel delirio conclamato. La diffidenza non può considerarsi tuttavia un prodromo della paranoia. Personalità sospettose e diffidenti possono rimanere anche un’intera vita lontane sia dalla psicosi manifesta, che emerge col classico delirio paranoico (gelosia, persecuzione, grandezza, veneficio, scoperta, etc.), sia dalla psicosi paranoica latente, nella quale il delirio si dice incistato, ossia il soggetto lo nutre e lo alimenta al proprio interno per molto tempo, prima che venga fuori in una dinamica occasionale e spesso fortuita con l’ambiente umano e sociale. La relativa stabilità nell’instabilità dei soggetti che, pur essendo sospettosi e diffidenti, mai arrivano alla paranoia vera e propria, fa innanzitutto ammettere la realtà di strutture di personalità e dei loro disturbi, nelle quali l’emergere di crisi paranoidi (quasi sempre persecutorie) non si risolve nella stabilizzazione di un delirio cronico o in un sistema delirante inattaccabile, come poi vedremo parlando a proposito della psicosi paranoica1.
[…] E’ caratteristico che i modi di funzionamento paranoidi, i modi di pensare, i tipi di esperienza affettiva e simili, e perfino certe specifiche operazioni mentali come la proiezione, abbiano molti gradi di gravità e siano inoltre modificati da altri fattori e tendenze con le sfumature più diverse. Prescindendo dalla misura della gravità, vi sono, a titolo descrittivo e generalmente parlando, due tipi di persone che rientrano nella categoria di questo stile: gli individui furtivi, compressi, apprensivamente sospettosi, e quelli rigidamente arroganti, sospettosi in modo più aggressivo, megalomani.
[…] Per lo più si tratta di persone non psicotiche, quantunque possano spesso presentare degli aspetti al limite della psicosi, in cui tratti paranoidi, come la sospettosità, sono insieme estesi e di lunga durata. […]
[…] Quando definiamo una persona ‘sospettosa’ di solito ci riferiamo a certe sue idee, preoccupazioni o apprensioni ingiustificate, cioè un suo continuo aspettarsi degli inganni. In altre parole, di solito ci riferiamo a quello che pensa, ai contenuti della sua mente, che, tecnicamente parlando, sono contenuti proiettivi. Ma la ‘sospettosità’, specie quando non è semplicemente occasionale ma cronica e abituale, descrive anche un modo di pensare e di conoscere. […]
[…] E’ ovvio, ad esempio, che per certi aspetti il pensare in modo sospettoso è un pensare non realistico. Tuttavia, a ben considerare, solo in certi sensi il pensare in modo sospettoso non è realistico, perché in altri invece può essere acutamente percettivo. […]Shapiro 1965, p. 54-55.
La realtà paranoide, benché condizionata da sospetto e diffidenza, rimane ancora inserita in una dinamica conflittuale con la realtà esterna ma anche con quella interna, collocata all’esterno grazie al processo proiettivo. L’attenzione rigorosa con la quale il soggetto scandaglia le dinamiche con l’esterno, guidato dal sospetto metodico2, produce inevitabilmente una serie di conferme degli assunti di base pregiudiziali che alimentano la diffidenza e l’acquisizione di prove sempre più irrefutabili, nonché di supposizioni e previsioni tendenziose e autocentriche. Grazie a un’attenzione costante e a una capacità osservativa acuta e penetrante, il soggetto pratica una incessante “pesca a strascico” di dettagli e sottigliezze, dai quali poi emergeranno indizi in grado di accentrare i suoi sospetti e indirizzare la sua diffidenza.
[…] Questo tipo di attenzione, in altre parole, costituisce un autentico modo cognitivo. Queste persone non solo sono capaci di un’attenzione eccezionalmente attiva, intensa e indagatrice, ma sembrano eccezionalmente incapaci di qualsiasi altra cosa. Continuamente stanno con l’occhio appuntato e indagatore, sempre in intensa concentrazione. La loro attenzione non è mai passiva o casuale, mai semplicemente vagante. Sono queste le caratteristiche cui alludo quando dico che l’attenzione sospettosa è un’attenzione continua, intensa e rigidamente diretta. E’ un’attenzione che ha sempre una meta, un proposito, che è sempre in cerca di qualcosa. Per dire diversamente, è un’attenzione rigidamente intenzionale. […]
[…] Da un lato il paranoide è fermamente alla ricerca di una conferma delle sue previsioni; dall’altro le stesse rigide previsioni su quel che troverà gli permettono di ritenersi in diritto di non credere e non badare alle evidenti contraddizioni. Fra questi due atteggiamenti egli è destinato a ‘trovare’ quello che cerca. In questo processo la capacità intellettuale, la sottigliezza e l’acutezza dell’attenzione diventano non già garanzie di un giudizio realistico ma, al contrario, strumenti di prevenzione. […] Shapiro 1965, p. 58-59.
La posizione ipervigile e il tono guardingo dell’osservazione fanno del paranoide sospettoso un soggetto poco suggestionabile, il cui approccio con la realtà è continuamente filtrato da uno schema di controllo diretto ora su “indizi” che stimolano sospetti, ora su novità o eventi inaspettati che stimolano diffidenza.
La difesa paranoide
In senso lato, potremmo formulare il concetto di difesa paranoide, in riferimento a strutture di personalità, le quali, pur non essendo psicotiche dal punto di vista clinico, utilizzano le modalità del sospetto e della diffidenza fino a farne schemi abituali di interazione ma anche un assetto rigido e ripetitivo che tende alla cristallizzazione.
La difesa paranoide può quindi essere una risorsa di personalità di area nevrotica che, nella categorizzazione esplicativa che abbiamo esposto nel Compendio (cit. p.184-86), corrisponde alla diagnosi di sdoppiamento isterico.
La comune difesa dissociativa (sdoppiamento della personalità) che si manifesta fin dall’età infantile in coloro che rientrano nell’area nevrotica può essere superata o rinforzata dallo stabilirsi di una difesa paranoide, in un periodo che pressappoco corrisponde all’adolescenza.
Con l’adolescenza, nel confronto con la società dei coetanei, nelle dinamiche ambientali e culturali relative, si manifesta la necessità di un mantenimento dell’autostima che la difesa dissociativa, più adeguata al periodo infantile, non garantisce più. La modalità paranoide diventa così utile ad attenuare una rappresentazione di sé scadente, in quanto umiliata e resa impotente da figure di attaccamento inadeguate. Tali figure di attaccamento sono spesso esempi che inducono nel soggetto un modellamento patogeno e ne condizionano l’autonomia, facilitando l’organizzazione di una personalità basata sul sospetto e la diffidenza.
[…] I paranoici di livello nevrotico proiettano le problematiche interne in un modo potenzialmente ego alieno: il paziente proietta, ma una parte osservante del Sé alla fine riuscirà, all’interno di una relazione affidabile, a riconoscere come proiezioni i contenuti mentali esteriorizzati. Le persone che in un colloquio iniziale si descrivono come paranoiche spesso appartengono alla categoria nevrotica (sebbene a volte anche paranoici di livello borderline o psicotico possano parlare in questo modo, nel tentativo di dimostrare che conoscono la terminologia, senza però rendersi conto realmente che le loro paure sono proiezioni). […] p. 234
[…] La principale polarità nelle rappresentazioni di sé del paranoico è costituita da un’immagine di sé impotente e umiliata in contrasto con un’immagine onnipotente, vendicativa e trionfante. La tensione tra queste due immagini pervade il loro mondo soggettivo. Sfortunatamente, nessuna delle due posizioni offre un qualche sollievo: il terrore della sopraffazione e del disprezzo si associa al lato debole della polarità, mentre il lato forte ha in sé l’inevitabile effetto collaterale del potere psicologico, che è una colpa insopportabile. […] McWilliams 1999, p. 239.
[…] La tendenza a vedere se stesso come importante e potente, come punto focale delle deliberate macchinazioni altrui, piuttosto che vulnerabile vittima di circostanze esterne, fa comprendere il legame emotivo che clinici e ricercatori hanno ripetutamente posto all’origine delle dinamiche paranoidi: l’esperienza infantile di ripetute umiliazioni che non hanno potuto essere evitate nella realtà o persino definite con un nome e che, di conseguenza non sono state elaborate. […] p. 136
[…] Le origini della tendenza all’umiliazione negli schemi familiari non sono del tutto chiare. Come per molte patologie, una disposizione paranoide sembra trasmettersi da una generazione all’altra, attraverso il modellamento e il condizionamento, ma anche con un sottile e pernicioso processo di enactment e colpevolizzazione (parole di Adrienne Harris). L’esperienza clinica suggerisce che, se il genitore è stato regolarmente umiliato nell’infanzia per qualche particolare qualità umana, può facilmente negare quella qualità e proiettarla sul figlio che viene allora attaccato per i sentimenti, i pensieri o gli impulsi che il genitore ha proiettato su di lui. […] p. 136-37
[…] Alla base delle dinamiche di umiliazione vi è la difficoltà del genitore di permettere al bambino di essere una persona separata, con un senso di autonomia. […] p. 137
[…] In una famiglia che alimenta la paranoia, fidarsi della propria famiglia d’origine significa attingere a piene mani alla propria umiliazione, mentre viene costantemente scoraggiata la possibilità di fidarsi degli altri. A differenza della persona schizoide, che trae sollievo dalla distanza nonostante vi sia il desiderio di entrare in una relazione più intima, la persona paranoide non trova conforto né all’interno né all’esterno della relazione. […] McWilliams 2008, p. 140.
La personalità paranoide, pur non essendo un prodromo psicotico, può senz’altro costituire il precedente di quello che a tutti gli effetti si può definire un processo psicotico. A meno che non intervenga una relazione “correttiva”, fonte di esperienze emozionali nella quali la tendenza proiettiva sia contenuta, a favore di processi di mentalizzazione implicita ed esplicita. Ancora una volta il decorso di una tendenza paranoide (come per altri disturbi di personalità) dipenderà dal Sistema Attaccamento e dalla sua organizzazione. E‘ fondamentale, però, che il clinico e lo psicoterapeuta non si confondano sulla struttura di personalità, liquidando il sospetto e la diffidenza come componenti essenziali di una dimensione delirante, quando invece, come diceva Bleuler, nella paranoia conclamata la diffidenza scompare. Noi aggiungiamo che scompare perché insieme ad essa scompare anche il conflitto, nel quale una parte della personalità si fa ancora delle domande su ciò che sembra minaccioso e ostile, prendendone le distanze in un contesto di preoccupazione e timore. Infatti, ciò che potrebbe accadere in seguito non è ancora scontato. Il soggetto sospettoso e diffidente potrebbe ritrovare la fiducia e la speranza, che in psicoterapia sono direttamente collegate con il fattore comune della alleanza terapeutica (cfr. Compendio di Psicoterapia p. 46). Ma si dà il caso che la difesa paranoide sia incoraggiata a tal punto dalle esperienze con l’ambiente umano, fino a sfociare, in un certo numero di casi, in una paranoia manifesta, più o meno incistata, che segna il punto di rottura del conflitto precedente con la realtà e si esprime primariamente con la comparsa del delirio strutturato e sistematizzato.
Paula e Lina
Per fare un esempio, la protagonista Paula (Ingrid Bergman) del film Gaslight (1944) di George Cukor, modificato nella versione italiana col titolo Angoscia, è portata dal marito (Charles Boyer) al limite della psicosi, in quanto vede scemare la luce a gas che illumina la sua casa e si angoscia, pensando a un proprio disturbo della percezione. In questo caso, la donna sospetta di se stessa o di altri, ma non si accorge dell’aggressione nascosta del marito, che per fini loschi sale in soffitta a cercare un tesoro nascosto e abbassa l’erogazione del gas. L’angoscia dura fino a quando un poliziotto (Joseph Cotten) non scoprirà l’inghippo e lo rivelerà a Paula. Quest’ultima potrebbe essere affetta da una forma di disturbo sensitivo del pensiero, che potrebbe sfociare in una particolare forma di paranoia (delirio sensitivo di rapporto di Kretschmer). In questo senso, la donna vive l’angoscia di perdere la lucidità e non si fida più delle sue percezioni, rischiando di essere soggiogata e suggestionata da chi la manipola e dalle sue stesse paure.
[…] Una goccia d’acqua fa talora traboccare il vaso: il Delirio s’accende in occasione di una discussione, di un mutamento o di una umiliazione. Il Delirio è un Delirio di rapporto (Beziehungwahn); infatti, dice Kretschmer, è vissuto come l’esperienza cruciale d’un conflitto del soggetto con un altro o con un gruppo d’altri (congiunti, famiglia, vicini, etc.). Si tratta di un Delirio di rapporto “concentrico”, aggiunge l’autore, poiché il soggetto è al centro dell’esperienza, del “processo” (come è stato superbamente descritto da Kafka), che circonda e minaccia il soggetto medesimo. […] s’impiega spesso il termine di “delirio di riferimento” per esprimere il senso delle interpretazioni deliranti, dell’esperienza fondamentale vissuta da questi malati; essere l’oggetto d’un interesse, d’una indicazione o d’una malevolenza particolare, fastidiosa e umiliante. Un altro carattere di questi deliri consiste nel fatto che le idee e i sentimenti deliranti restano, per così dire, sospesi all’avvenimento che ne costituisce il centro (divulgazione d’una malattia, denuncia d’un furto, accusa d’una colpa sessuale, esclusione da una comunità, etc.). Questa “paranoia sensitiva” si svolge generalmente nell’angoscia e nella tensione conflittuale; le reazioni di questi malati sono di tipo depressivo e ipostenico, piuttosto che aggressive. […] Ey, Bernard, Brisset, 1978, p. 534-35.
In realtà, Paula ha una struttura di personalità dipendente, decisamente suggestionabile, per cui uscirà dalla sua angoscia e dagli autoriferimenti solo quando un altro uomo l’aiuterà a scoprire le intenzioni truffaldine e violente del marito. Paradossalmente, sono proprio la mancanza di un’attitudine al sospetto e un’insicurezza di fondo che spingono Paula nel vicolo cieco dell’angoscia psicotica e del delirio sensitivo.
Ben altra è la dimensione nella quale si muove Lina (Joan Fontaine), la protagonista di Suspicion (Il Sospetto, 1941) di Alfred Hitchcock. Splendida “zitella”, figlia unica di una ricca coppia attempata, conosce un fascinoso John Aysgarth (Cary Grant), giovane che vive di espedienti e la fa innamorare, nonostante l’ostilità dei genitori, soprattutto del padre, arcigno generale in pensione. Osservando i comportamenti fatui e poco responsabili di John, Lina matura il “sospetto” che l’uomo l’abbia sposata solo per i suoi soldi. La vicenda si complica insieme alla sospettosità di Lina, che diviene diffidenza. Fino a pensare che John voglia ucciderla per liberarsi di lei e godersi l’eredità.
L’arte del grande Hitchcock lascia nel vago quanto il sospetto sia giustificato o frutto di una pesante identificazione col padre austero (presente anche dopo morto con un megaritratto nel soggiorno della giovane coppia). Lina, si spinge al punto di fare verifiche e sopralluoghi materiali, come una detective, piuttosto che riflettere sul perché della sua relazione col bellimbusto John. Il finale lascia intendere che sarà costretta a rimanere in allerta, nutrendo sospetti e diffidando dell’uomo del quale si dice innamorata. In un certo senso, Lina è l’opposto di Paula. Quanto quest’ultima è impigliata nelle suggestioni e diviene manipolabile, tanto la prima è tormentata da congetture che l’afferrano continuamente, per via di un’ipervigilanza che la spinge a indagare e fare verifiche all’esterno.
[…] La persona sospettosa ha un’attenzione acuta, ristretta, rigidamente diretta a trovare certe prove; le può scovare e imporre le proprie conclusioni praticamente su tutto. Così può avere al tempo stesso assolutamente ragione nella sua percezione, e assolutamente torto nel giudizio. Questa è prevenzione – in un certo senso il contrario psicologico della suggestionabilità. Questo tipo di cognizione ha molte manifestazioni nei sintomi paranoidi. Non solo è evidente nella sospettosità, ma è anche una base cognitiva del dogma paranoide…[…] Shapiro 1965, p. 60.
I casi citati sono utili per constatare quanto il sospetto e la diffidenza possano rimanere tali, all’interno di tratti di personalità, anche per tutta la vita. Almeno fino a quando esiste un conflitto che mantiene il soggetto in un equilibrio patologico (disturbo di personalità paranoide, DSM-5), sempre sull’orlo di una crisi delirante che non si struttura mai del tutto, finché il sospetto e la diffidenza permangono.
In tal senso, Kraepelin non smise mai di proporre la paranoia a partire da uno “sviluppo insidioso” o “abnorme”, sottolineando in sostanza sia la predisposizione, sia la “deformazione psichica”. Per Kraepelin, non c’è alcun dubbio che la paranoia sia il frutto di una “trasformazione” e persino di una “disgregazione” della personalità, in base a dei tratti caratteristici come la sopravvalutazione di sé e la diffidenza.
[…] Il problema che per primo si pone è se si debba abolire del tutto il termine “paranoia”, o se si possa conservarlo, con delle limitazioni, per qualche gruppo. A mio avviso, c’è una particolare forma di psicosi delirante, la cui peculiarità potrebbe giustificare la scelta di questo nome. Si tratta dello sviluppo insidioso e puramente combinatorio di un delirio strutturato, psichicamente elaborato, prodotto da cause interne, con piena conservazione dell’integrità della personalità. Anche se a causa della rarità con la quale questi casi giungono nelle mani degli psichiatri, oggi non siamo ancora in grado di delimitare e caratterizzare con assoluta precisione il quadro clinico, forse possiamo comunque dire che si tratta essenzialmente di uno “sviluppo abnorme”, che si attiva in persone che hanno già una predisposizione psicopatica, per l’influsso degli stimoli della vita quotidiana. Probabilmente non abbiamo a che fare con un processo patologico vero e proprio, ma con un tipo di “deformazione psichica”, che riceve in ogni caso la sua particolare configurazione clinica, innanzitutto dal conflitto con la vita. Questo spiegherebbe da un lato il lentissimo sviluppo del quadro patologico, dall’altro il sorgere del delirio dalla personalità e la trasformazione di quest’ultima senza che vi siano chiari segni di disgregazione. Si potrebbe anche ammettere che la radice di questo disturbo sia da rintracciare in una particolare predisposizione “paranoidea”, che spesso incontriamo in un misto di smisurata sopravvalutazione di sé e di diffidenza, che non giunge alla costituzione di una paranoia vera e propria; per arrivarvi devono forse interagire particolari condizioni sfavorevoli interne ed esterne. […] Kraepelin, 1912, p. 99-100.
Lo spettro schizofrenico
Naturalmente, però, a partire da un disturbo di personalità e a certe condizioni, il delirio vero e proprio può svilupparsi e strutturarsi. Sappiamo infatti, che tutta l’area che nel DSM-5 comprende i disturbi di personalità è contrassegnata dalla difesa paranoide. Le reazioni paranoidi, più o meno brevi, non sono rare nella cosiddetta area borderline (Kernberg, 1996), tuttavia la matrice del delirio vero e proprio, e di quello che si struttura fino a diventare paranoia, richiede una distinzione che ci porta a definire cosa si intende per delirio paranoideo (disturbo delirante, DSM-5) e cosa, pur avendo alcuni connotati di esso, si chiama delirio ma non configura la paranoia come entità clinica, ma altri disturbi che hanno il delirio come manifestazione non secondaria.
Come si vede, preferiamo l’aggettivo paranoide per contrassegnare il delirio nella paranoia, tralasciando le vecchie diatribe che associavano l’aggettivo paranoicale al disturbo delirante cronico, per riservare l’aggettivo paranoide a un sottotipo di schizofrenia, secondo la classificazione di Bleuler (1911). Nel DSM-5, la questione dei sottotipi della schizofrenia è stata risolta inserendo tutti i disturbi psicotici in quello che viene definito lo spettro schizofrenico. All’interno della vaga e sfuggente definizione di spettro, si elimina l’ingombrante e ambiguo sottotipo della schizofrenia paranoidea e si lasciano tutte le psicosi deliranti (escluse le psicosi affettive) in un unico contenitore. La scelta del termine spettro schizofrenico sembra esprimere l’idea di fondo che tutti i disturbi deliranti abbiano in comune una quota di disorganizzazione della struttura psicofisica, con la schizofrenia nel polo più disorganizzato e il disturbo delirante nel polo adiacente al disturbo schizotipico di personalità, ossia ad una patologia di tratto nella quale una parte della personalità si mantiene ancora integra. Il tentativo è quello di riunire in uno stesso contenitore delle manifestazioni riconducibili a un’origine comune condivisa. Nel caso della schizofrenia, fattori fondamentali sarebbero l’origine genetica e la vulnerabilità del SNC (cfr. Biondi, a cura di, 2016).
Un tentativo che sembrerebbe inutile e fuorviante, in quanto implica l’affrontare questioni teoriche che il DSM da sempre ritiene di escludere, per porsi in un atteggiamento descrittivo utile a stabilire somiglianze e contiguità tra sindromi, la cui differenziazione sarà comunque compito del clinico, meglio se supportato da una serie di validi strumenti di psicodiagnostica.
[…] riteniamo fuorviante dare una definizione di spettro che metta da parte l’originaria definizione in ottica fisica per sostenere che lo spettro è “un concetto più ampio, più capiente, più amorfo, multidimensionale e multidirezionale” rispetto al continuum. Definito così, lo spettro risulta un concetto vago, utilizzabile in vari ambiti e con varie accezioni e quindi aspecifico e inutile; occorre pertanto cercare di delineare meglio l’ambito in cui applicarlo per la ricerca psichiatrica. In Psicopatologia, come ampiamente discusso, il concetto di spettro è stato inteso in modi, spesso tra loro, almeno in parte, differenti; quello più aderente all’originario utilizzo in Fisica è nato con gli studi sulla genetica della schizofrenia. Secondo questa impostazione vi sarebbe un fattore, sottostante la sindrome psicopatologica, facente parte del meccanismo patogenetico che la provoca, la cui presenza permetterebbe di riunire tra loro varie entità cliniche in un unico spettro. Questa impostazione si adatta bene all’individuazione di un determinato genotipo responsabile di differenti fenotipi, ma va altrettanto bene se vengono considerati altri punti del meccanismo patogenetico. […] p. 23
[…] Se tutto dipendesse esclusivamente da un unico meccanismo patogenetico, ci si dovrebbe attendere sempre uno spettro continuo in cui le differenze fenomeniche sarebbero solo quantitative, di tipo dimensionale; in questo caso, l’individuazione di disturbi differenti sarebbe solo una convenzione diagnostica […] Nella pratica comune, comunque, gli spettri sono molto raramente continui, di solito sono discontinui, comprendendo sindromi solo in parte simili, accomunate in un certo ordine da un punto in comune nella patogenesi (sia esso reale o solo ipotizzato), ma tale da renderle sempre sindromi distinguibili, con chiari confini, che permettono, comunque, una diagnosi categoriale. Non si può dunque, per queste sindromi, parlare di continuità nel senso stretto del termine (esposto nelle premesse concettuali); in caso di sindromi distinguibili, ma che sfumano nel riscontro clinico di casi misti, più che di continuità si dovrebbe parlare di contiguità. […] Aragona, Vella, 1998, p. 25.
Stabilito, quindi, che lo spettro schizofrenico del DSM-5 è solo un contenitore di sindromi contigue, accostate l’una all’altra per via di “punti in comune nella patogenesi”, mettiamo in evidenza la costanza del delirio come elemento di contiguità:
I tre tipi di delirio
Distinguiamo, però, almeno tre tipi di delirio, inserendo delle differenze qualitative che diventano essenziali per orientarsi all’interno dei disturbi deliranti. Parliamo infatti di:
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Delirio sistematizzato (corrisponde alla paranoia propriamente detta)
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Delirio fantastico (immaginativo, parafrenico sec. Kraepelin)
-
Delirio autistico (tipico della schizofrenia)
In questo modo, abbiamo evidenziato le categorie nelle quali si può individuare una differenza qualitativa tangibile ed utile in campo clinico.
[…] Un primo tipo – o grado – dell’alienazione della persona è rappresentato dai deliri “passionali” che paralizzano l’Io su un tema erotomanico o di gelosia o di rivendicazione o di querulomania, sia di deliri sistematizzati di persecuzione o di influenzamento. Questo tipo di personalità delirante (Paranoia) è caratterizzato dalla chiarezza e dall’ordine della vita psichica, dalla sua polarizzazione verso una o più convinzioni deliranti fondamentali, dalla struttura sistematica e “ragionante” della finzione. I meccanismi di intuizione e di interpretazione sono prevalenti (ed anche classicamente privi di carattere allucinatorio).
Un secondo tipo è rappresentato da una proliferazione dell’immaginazione, straordinariamente lussureggiante (Deliri d’immaginazione di Dupré, Parafrenie di Kraepelin). Questo tipo di delirio cronico è caratterizzato dalle ricchissime confabulazioni, dai falsi ricordi, dalla tendenza a sostituire una concezione del mondo fantastica (meravigliosa o barocca) alle rappresentazioni collettive della natura, degli avvenimenti o delle relazioni sociali.
Un terzo tipo è rappresentato dal gruppo delle Schizofrenie, caratterizzato da una alienazione della persona e del suo mondo immersi in una esistenza autistica (cioè in un mondo impenetrabile e caotico, un vero “mondo alla rovescia”, quasi “capovolto” e ripiegato nelle profondità immaginarie dell’essere. […] Ey, Bernard, Brisset, 1978, p. 138.
Dopo questo importante chiarimento, possiamo dedicarci all’approfondimento della paranoia (disturbo delirante DSM-5), facendo bene attenzione a collocare questo disturbo nell’ambito delle psicosi deliranti croniche, così come ci invita a fare Henri Ey. Si apre quindi un’altra dicotomia da chiarire tra delirio acuto e cronico, prima di dedicarci all’oggetto del nostro studio.
Già in Jaspers (1913) troviamo la distinzione tra processo, ossia un elemento causale (fisico o psichico) nuovo che irrompe nella vita di una persona, costituendo una svolta qualitativa di tipo psicopatologico, e sviluppo, ossia l’indicazione di un percorso verso la psicopatologia, a partire da tratti precedenti facenti parte della personalità premorbosa.
Riportando al delirio questa dicotomia, allo stato attuale soltanto i deliri immaginativi presentano la componente processuale, mentre sia il delirio paranoide che il delirio autistico vanno collocati nella sfera dei disturbi dello sviluppo, in quanto le manifestazioni anche improvvise e dirompenti che si osservano nella clinica sono sempre riconducibili a un disturbo di personalità grave ignorato in precedenza (schizoide, schizotipico, paranoide). Ampiamente superato risulta il concetto di schizofrenia acuta, dopo le numerose ricerche della Scuola di Bonn sui cosiddetti sintomi di base (Huber, 1983; Huber, Gross, 1989; Klosterkötter, 1988) e gli studi sugli esordi psicotici (McGorry, Jackson, 1999). In sostanza, tutto ciò che sembra improvviso nella manifestazione schizofrenica deve fare i conti col DUP (duration of untreated psychosis), ossia col vero esordio psicotico avvenuto in forma silente e latente, in maniera variabile alcuni anni prima. Ovviamente, la manifestazione delirante può sembrare un processo acuto, scaturito da uno scompenso di un equilibrio normale. La condizione autistica, però, per chi vuole riconoscerla, è a portata di mano. Occorre un’attenzione non descrittiva e notarile sulla struttura della personalità e le sue classiche manifestazioni (che non ci siamo posti in questa sede di discutere).
[…] Questo delirio ha i seguenti caratteri: non è espresso che attraverso un linguaggio astratto e simbolico; non può essere compreso e ricostruito dall’osservatore che deve accontentarsi in genere di rilevarne l’incoerenza; utilizza modalità magiche di pensiero o di conoscenza; è costituito da credenze e idee che formano una concezione ermetica del mondo.
Nell’evoluzione spontanea di questo Delirio è tipico il suo carattere caotico, frammentario e sconnesso: “è un delirio senza progressi discorsivi, un delirio che non va, che rimane, malgrado le sue complicazioni labirintiche, cristallizzato e stereotipato nei suoi frammenti sparsi” (H. Ey, 1955). L’evoluzione anzi comporta un impoverimento progressivo delle formulazioni. Il malato si rinchiude poco a poco in un pensiero “sognato” da cui non emergono, dopo anni di evoluzione, altro che formule bell’e fatte, ermetiche, astratte, lontane e incomprensibili. […] Ey, Bernard, Brisset, 1978, p. 609.
Riprenderemo alcuni aspetti del delirio autistico per differenziarne la natura nel confronto col delirio paranoide.
Al momento, sappiamo che in presenza di una condizione acuta delirante ciò che serve evidenziare è sempre il terreno, ovvero la personalità nella quale si manifesta il disturbo. Anche l’evento scatenante può contribuire alla definizione della natura del delirio, ma in misura minore.
Avremo, quindi, un momento iniziale nel quale il clinico potrebbe non distinguere con chiarezza se a persona che gli sta davanti sia affetta da un delirio immaginativo, con tutta la componente sensitivo-allucinatoria che lo caratterizza, oppure sia affetta da uno scompenso delirante schizofrenico, con “il suo carattere caotico, frammentario e sconnesso”, spesso con tema d’influenzamento, ma nel quale emerge con chiarezza la disorganizzazione della personalità pregressa.
La bouffée delirante
La psichiatria francese ci ha offerto un quadro clinico interessante, dal quale partire per impostare una diagnosi che vede contigui, a causa della condizione acuta, nove degli undici disturbi dello spettro schizofrenico DSM-5, tranne il disturbo schizotipico e il disturbo delirante (ossia la paranoia). Stiamo parlando della bouffée delirante (BD).
[…] Tra BD e schizofrenia c’è un divario che non è solo strutturale, tanto che l’una mostra un delirio accidentale, l’altra è un avvenimento interiore. In questo senso, Ey fa una distinzione tra BD e poussée schizofrenica: “…queste poussées non hanno brusca insorgenza come le BD, vengono precedute da una specie di meditazione delirante, si inseriscono quali epifenomeni accessuali, entro una modificazione processuale seppure latente della personalità” (Ey, 1955).
La diagnosi differenziale con la schizofrenia costituisce un vero nodo clinico e, sebbene Ey sia contrario al concetto di schizofrenia acuta, non trova l’elemento patognomonico che distingua fenomenologicamente le due patologie. La clinica smentisce le categorizzazioni, specialmente nelle prime fasi della malattia. Il criterio diagnostico differenziale più importante resta quello basato sul decorso. “Solo dopo che la burrasca è passata si può, studiando minuziosamente la trasformazione della persona e il lavoro di costituzione del mondo autistico, uscire dall’incertezza. Fino ad allora, bisogna astenersi da una diagnosi troppo azzardata e da una prognosi troppo arbitraria, lasciando che di questa incertezza si avvalga la prassi terapeutica” (Ey 1955).
L’affermazione di Ey è metodologicamente corretta e potrebbe anche apparire come una saggia precauzione contro le false diagnosi, tuttavia ci sembra superabile, nel momento in cui si ricorra al metodo diagnostico intuitivo, come ci siamo proposti di fare nella nostra impostazione clinica.
La diagnosi di schizofrenia acuta ridiventa, in tal modo, alternativa a quella di BD; il vissuto atmosferico (Tellenbach 1968), il praecoxgefhul (Rumke, 1958) come vedremo, prima ancora di una visione formale, forniscono alcune impressioni che andranno poi integrate nella storia personale del soggetto e nel decorso della crisi. […] Lago, Martellotti, 2000, 2002, p. 412).
In assenza di atmosfera schizofrenica e di praecoxgefhul, ovviamente, allo psichiatra esperto accadrà di fare un’altra esperienza che avrà una diversa natura e gli permetterà l’intuizione di elementi, i quali a loro volta verranno confermati dalla visione formale (cfr. Pallagrosi, 2016). Intendiamo dire che, una volta dato alla BD il valore di psicosi acuta non schizofrenica, per averla distinta dalla schizofrenia acuta, potremo configurare un quadro clinico che presenterà, man mano che la conoscenza della personalità del paziente si farà più precisa, una sua forma particolare e specifica.
Un elemento che può cimentare la diagnosi nel contesto di una psicosi acuta è il fatto che, dal punto di vista strutturale, gli esordi psicotici hanno un denominatore comune nelle manifestazioni deliranti e allucinatorie.
Riguardo al delirio, le differenze, quindi, interessano da un lato la forma, dall’altro il contenuto, intendendo per quest’ultimo, non tanto il tema, quanto la partecipazione affettiva del soggetto, evidenziata dal fatto che determinati complessi e intenzioni, latenti fino a quel momento, vengono espressi all’esterno e interagiti nei rapporti con l’ambiente umano.
Il primo aspetto formale del delirio nella BD è la sua non sistematizzazione. Il termine di paragone non è il delirio schizofrenico, anch’esso poco strutturato ed elementare, ma il delirio paranoide, cosiddetto delirio puro, cioè esclusivo disturbo del pensiero senza alcun’altra alterazione evidente nel rapporto con la realtà. Della costruzione delirante paranoica si dice che nasce e si sviluppa da idee prevalenti, ossia “pensieri e gruppi di pensieri che per effetto del loro colorito affettivo hanno assunto preponderanza che mantengono per lungo tempo, oppure, indefinitivamente”(Bini e Bazzi 1954).
L’idea prevalente richiama la struttura di personalità e ci riporta alla valutazione della storia personale del soggetto; qui a noi interessa evidenziare che l’ideazione paranoica avviene in presenza di coscienza lucida e integrità della coerenza razionale, per cui, eccettuato il pensiero prevalente che si struttura in delirio, la facoltà di giudizio non è intaccata.
Nella BD, abbiamo premesso che la coscienza si mantiene lucida ma dobbiamo associarvi un’ideazione incoerente.
[…] Il rilievo della lucidità della coscienza nella BD rientra nella tradizione psichiatrica…l’incoerenza è sempre evidente, alle volte viene rilevata come apparente confusione che contrasta con la conservazione dell’orientamento, l’autoriflessione, l’attenzione del paziente; altre volte si ha un’impressione di “caoticità”, di un incalzare disordinato del pensiero, di un flusso di ricordi, immaginazioni, esperienze fantastiche, che si mescolano a percezioni esatte o anche deliranti (coscienze di significato) dell’ambiente. […] Gozzetti, Vendrame, 1967.
Il rilievo di un’apparente confusione nella BD ha richiesto più volte il distinguo da condizioni come il delirium, anche se Ey ne ha fatto un cardine della sua teoria sulla destrutturazione della coscienza, evidenziando nello stato oniroide i caratteri di una sindrome organica. Inserendo le esperienze deliranti oniroidi tra le manifestazioni della BD, Ey vuole farne il trait d’union con le psicosi confuso-oniriche di chiara matrice psicorganica, per cui sostiene che
[…] lo stato oniroide contiene la destrutturazione temporale etica del livello maniaco-depressivo, la depersonalizzazione e la qualità allucinatoria del vissuto delirante, ma vi aggiunge (in quanto forma più profonda di destrutturazione) l’atmosfera propria a un sogno particolare, a un sogno che per presentarsi non esige l’annullamento della realtà ma solamente la sua ‘crepuscolarizzazione’ […] Ey, 1950.
Ey, come molti altri, pensa ad un’equazione tra destrutturazione della coscienza e sogno, allo stesso modo che tra schizofrenia e sogno. A questo proposito, Barison ci trova d’accordo quando dice che “accostamenti della schizofrenia al sogno e all’onirismo sono secondo noi basati su analogie più di superficie che di sostanza”(Barison, Massignan, 1956), e confronta due stili, l’uno più affine all’onirismo, avvicinabile all’arte surrealista, l’altro tipico della schizofrenia, avvicinabile all’arte astrattista.
Della classificazione di Barison teniamo a sottolineare soprattutto due termini: stati oniroidi pseudoallucinatori, stati onirici illusionali. Entrambi i termini possono esprimere le qualità dello stato oniroide nella BD e permetterci di introdurre i punti riguardanti l’insorgenza del delirio.
La fase di stato delirante, per quanto improvvisa e vorticosa, è sempre preceduta da avvisaglie che quasi sempre sfuggono agli osservatori, in quanto si tratta di manifestazioni a carattere soggettivo. Già Magnan (Magnan, Legrain, 1895), quando parlava di délire d’emblée e di fulmine a ciel sereno, tendeva a evidenziare il carattere processuale del delirio e la sua rapida scomparsa. Nel corso degli anni, però, soprattutto con l’ingresso della schizofrenia tra le sindromi processuali, gli esordi psicotici deliranti sono stati messi sullo stesso piano, per cui si è rischiato di perdere la possibilità di procedere, già nella fase iniziale, a una distinzione basilare tra schizofrenia acuta e psicosi acuta non schizofrenica.
Con il praecoxgefhul e la diagnosi per penetrazione di Minkowski(1966), ma anche con il vissuto atmosferico di Tellenbach (1968), abbiamo sottolineato il livello recettivo di esperienza da cui lo psichiatra dovrebbe partire al momento della diagnosi (Pallagrosi et al., 2014).
Nella diagnosi del delirio acuto, superato il momento recettivo, abbiamo introdotto il momento differenziale illustrando alcuni elementi formali come la non sistematizzazione e la lucidità della coscienza associata a ideazione incoerente, riconducibili ad una alterazione oniroide della coscienza o stato oniroide.
Procedendo, presenteremo la fase delirante, vera e propria cesura clinica, tale da proporre una linea di demarcazione netta tra un prima e un dopo la crisi.
Il prima della crisi, comprendente la cosiddetta personalità pre-morbosa e i suoi rapporti con l’ambiente, generalmente si ricostruisce nell’approfondimento psicologico successivo all’incontro ed alla relazione psichiatra-paziente. In tale relazione si evidenziano i contenuti e si acquisisce la conoscenza psicodinamica necessaria all’indirizzo terapeutico. Il prima della crisi diventa, quindi, oggetto di elaborazione e interpretazione nella relazione terapeutica, consentendo di ricostruire il percorso vitale del paziente e facendo della crisi “il momento in cui il tutto subisce un cambiamento subitaneo, dal quale l’individuo esce trasformato, sia dando origine ad una nuova risoluzione, sia andando verso la decadenza”(Jaspers 1913).
Il prima della crisi, però, può anche avere un valore formale, ovvero esprimere una situazione del soggetto nella realtà ambientale, che possiamo definire come situazione di equilibrio della personalità, la quale entra in crisi in relazione ad un evento significativo scatenante. La crisi di equilibrio della personalità e l’evento scatenante, sempre presenti nel quadro clinico della BD, riconducono la visione formale ai concetti di urto, provocato dall’evento esterno, e rottura dell’equilibrio reattiva. Questi due concetti potrebbero essere messi in relazione con l’altro concetto di vulnerabilità, “secondo il quale ciò che perdura nel tempo sono tratti preesistenti e persistenti identificati come esperienze disturbanti dal soggetto stesso, a partire dalle quali possono svilupparsi - in particolari condizioni di sollecitazione ambientale - fenomeni psicotici conclamati” (Rossi Monti, Stanghellini, 1999).
Mettendo a confronto il prima della crisi nella schizofrenia e nella BD, consideriamo che, nel primo caso, l’evento scatenante che provoca l’urto e l’equilibrio della personalità che va incontro a rottura sono qualitativamente diversi da come gli stessi elementi si presentano nella seconda evenienza. Nella schizofrenia, la rottura dell’equilibrio è solo la manifestazione conclamata della vulnerabilità e della condizione autistica antecedente, nella quale la frammentazione interna della personalità si fa solo più palese nel comportamento attraverso deliri e allucinazioni.
Se l’accento viene posto immediatamente alla crisi in atto, senza il basilare momento intuitivo già accennato, il quadro si presta meno a distinzioni di ordine formale, anzi l’accostamento di schizofrenia e BD potrebbe produrre l’idea di sovrapposizione quasi totale.
Abbiamo l’impressione che la psicopatologia di Kurt Schneider (1950), soprattutto, ma anche quella jaspersiana, non considerando nella loro impostazione la componente inconscia della personalità, abbiano contribuito a uniformare i deliri acuti, attribuendoli all’unico quadro schizofrenico. Tuttavia, nello svolgimento del processo delirante vi sono delle manifestazioni che, anche se presenti nelle psicosi schizofreniche, non sono propriamente specifiche della condizione schizofrenica stessa. Seguiamo, allora, le fasi del delirio acuto ispirandoci al celebre studio di Conrad (1958) nel quale l’esperienza delirante è descritta come una successione di mutamenti di forma secondo la gestalpsychologie.
Conrad ha coniato “il concetto basilare dell’uberstieg (passaggio), che non è altro che la capacità, comune ad ogni individuo, di potersi vivere con prospettive diverse, sia come centro del proprio mondo, sia esterno a questo o dall’alto, dalla prospettiva degli uccelli, uomo tra gli uomini”. (Gozzetti et al. 1999).
L’uberstieg è il segno di una libertà intesa come possibilità di passare ad altra prospettiva, uscendo dalla schiavitù di un’unica visuale. L’uberstieg è importante per il mantenimento della coerenza interna in rapporto a modificazioni proprie e dell’ambiente.
La prima modalità con cui avviene il blocco dell’uberstieg è nella fase di trema (terremoto).
[…] La perdita dell’ordinamento abituale conduce a una sensazione di mutamento (mutamento di sé e del mondo circostante), di estraniazione (depersonalizzazione, derealizzazione), di inquietudine, di non familiarità; l’agitazione e l’ansia predominano: questa disposizione delirante non è ancora caratterizzata da alcuna fissazione tematica. […] Scharfetter, 1976.
La caratteristica di questa fase è appunto la mancanza di fissazione tematica, ovvero una sorta d’indecisione, imprecisione, vaghezza che si accompagna al senso di cambiamento, bene espressa dal termine ratlosigkeit (raten, decidere; losigkeit, perdita), che in italiano si può tradurre perplessità.
[…] La perplessità è in relazione con un insolito livello del sentire, in prevalenza rivolto a se stesso anziché alla realtà esterna. Esistono due livelli del sentire con cui il cambiamento è avvertito, quello autopsichico riferito all’interno dell’io e quello somatopsichico riferito al corpo. Un terzo livello riguarda il rapporto con l’ambiente, con le cose, la natura, gli altri esseri umani; in una parola con l’altro da sé. Ciò che avverte del cambiamento è quindi un percepire, quasi un constatare che qualcosa è mutato nel soggetto stesso o nell’altro da sé. Esiste cioè un esame di realtà valido che giudica estraneo un sentimento, una sensazione o una visione. Un io lucido e razionale prende atto di una trasformazione nel senso dell’estraneamento, che si accompagna ad un’alterazione corporea che almeno investe il vegetativo nel suo complesso, prima di interessare le sfera sensoriale specifica. […] Lago, Seta, 1992.
E’ importante evidenziare che la perplessità è solo una disposizione al delirio; in essa non è ancora presente la coscienza di significato delirante che si manifesterà nello stato d’animo delirante (wahnstimmung).
[…] Il fatto che il significato appaia in tali stati alla fase solo potenziale, tende però a rafforzare la supposizione che il fatto primitivo sia in essi proprio la incapacità di vivere il mondo com’è, la necessità di respingere un mondo che urge troppo da vicino e soffoca. […] Barison, 1958.
L’incapacità di vivere il mondo com’è dà luogo al senso di estraneamento che nei primi due livelli del sentire, somatopsichico e autopsichico, corrisponde alla depersonalizzazione; nel terzo livello, rivolto verso l’ambiente, l’estraneità è oggettivata nella derealizzazione. L’urto, di cui parlavamo, può essere la causa scatenante di queste esperienze soggettive spesso indicate come sintomi dell’esordio delirante ma non necessariamente sovrapponibili allo stato delirante vero e proprio. Nei casi in cui l’uberstieg è mantenuto, infatti, la rottura non è inevitabile e il soggetto, opportunamente aiutato, può venir fuori dalla perplessità e riorientarsi nella relazione terapeutica.
[…] Perplessità e delirio costituiscono quindi due aspetti psicopatologici che non solo sono differenziabili in pratica ma sono anche ben separabili concettualmente. […] Callieri, 1982.
Nella fase di apofania (apparire)
[…] dalla disposizione delirante della fase di trema emerge una nuova fisionomia dell’ambiente. La derealizzazione, gli equivoci sensoriali e i disturbi del pensiero (la protopatica prevale sull’epicritica) preparano la strada alla coscienza di significato abnorme del delirio. […] Scharfetter, 1976.
Compare in questa fase, con la wahnstimmung, l’atmosfera delirante.
[…] Non si tratta di una fase del processo interpretativo, ma di una esperienza completa e particolare, di una varietà di interpretazione con coscienza immediata di significato, anche se il significato è oscuro…tutti gli oggetti sembrano diversi perché hanno acquistato un significato nuovo, che non si sa cosa sia. Un significato minaccioso e lusinghiero che oscuramente e implicitamente viene riferito ad una potenza psicoantropomorfica sconosciuta. […] Barison, 1958.
Possiamo dire che la wahnstimmung sia “un pre-stadio della percezione delirante” (Schneider, 1950), ossia la comparsa di una coscienza di significato alterata in senso incombente e minaccioso sul soggetto,
Con la percezione delirante vera e propria siamo nella fase di anastrophé (capovolgimento), nella quale il soggetto si colloca al centro del mondo, in una rigida posizione tolemaica da cui non è più in grado di operare la svolta copernicana che gli ridarebbe le possibilità critiche.
L’importanza della percezione delirante è tutta legata alla sua “immediatezza sincretica” che ne fa il vero e proprio salto di qualità che segna l’inizio del delirio. Il concetto di délire d’émblee è perfettamente calzante con lo svolgimento della percezione delirante; già nell’analisi fenomenologica del vissuto del paziente si comprende la caratteristica del delirio.
La percezione delirante, per quanto attinente al sentire o udire alterato, è un disturbo del pensiero; infatti in esso non è realmente alterata la percezione, ma è la coscienza di significato che modifica la percezione stessa, fornendo al soggetto gli elementi “percettivi” che giustificano la tematica di riferimento e persecutoria. La cosiddetta “creazione di nuovi significati”, pur essendo sincretica alla percezione, proviene da profonde istanze che si trovano nella componente interna della personalità e agiscono in modo inconscio, inserendosi nel processo percettivo. Il riferimento a temi affettivi, credenze, concezioni più o meno distorte riguarda il contenuto del delirio che abbiamo distinto dall’aspetto formale. Un simile discorso pone l’esigenza di stabilire la natura di questo plus che va ad aggiungersi agli altri significati; un plus delirante ma attinente a temi o complessi affettivi propri del soggetto, che, nel caso della BD, rendono comprensibile la proiezione nella realtà di tali contenuti. Naturalmente, il plus che viene posto all’esterno nel processo proiettivo del delirio proviene dal livello protomentale della personalità, come l’abbiamo delineata secondo la metodologia IRPPI (cfr. Compendio etc., 2016). Il nucleo emotivo-affettivo, costituito da elementi protomentali non mentalizzati, potrebbe successivamente alla crisi essere ricoperto da strutture difensive, dando luogo alla cosiddetta guarigione a ponte delle psicosi brevi, ossia una rapida pseudo-guarigione che potrebbe condurre a un apparente ritorno alla norma. In effetti, si tratta di un equilibrio psicopatologico esposto alla cronicizzazione, cioè alla costituzione di un disturbo delirante (paranoia) o a forme di schizofrenia secondaria caratterizzate da deliri allucinatori.
Nella percezione delirante dello schizofrenico, il plus delirante sembra invece aver perso le radici che lo legano al fondo della personalità. Esso è ohne anlass (senza motivo), però, solo per chi ipotizza un deficit nella condizione schizofrenica, definita così, incomprensibile. Barison dice che “è un incomprensibile che avvertiamo come strano, di una particolare stranezza che ci sembra caratteristica, ma non altrimenti qualificabile…” (Barison, 1958);
Con la fase di apocalisse, la crisi delirante acuta arriva, secondo Conrad, al suo acme, nel quale avviene “una distruzione della forma” ovvero la frammentazione manifesta della personalità. In questo stadio si può parlare di stato oniroide e ideazione incoerente, oltreché di delirio immaginativo e allucinatorio.
[…] Per l’allentamento dei nessi associativi è liberata la nube delle qualità essenziali costitutive degli oggetti, insite in ognuno di loro; la conseguenza è una mareggiata di essenze, un’asyntaxis completa di immagini inonda il campo totale, che diventa straordinariamente simile al campo del vissuto del sognatore. […] Conrad 1958.
Anche Conrad non sfugge alla tentazione di paragonare al sogno il vissuto delirante, ed in particolare quello schizofrenico. Pertanto, la sua posizione può essere assimilata a quella di Ey, sia per la condivisione di una causa psicorganica all’origine del delirio, sia per l’idea che la destrutturazione formale corrisponda al risultato della perdita di controllo di meccanismi neuropsicologici profondi da parte di centri superiori cerebrali, responsabili dell’espressione razionale (Jackson). Tuttavia Conrad, a differenza di Ey, non fa distinzione tra delirio acuto schizofrenico e non, ma in tale commistione, fornisce suo malgrado il quadro clinico più apprezzabile di BD, nel seguente modo:
[…] E’ un processo, un evento, una metamorfosi, qualcosa che si configura nel tempo con un esordio, un’acme, o ancora una perdita, un dramma, una sequenza di scene, una catastrofe, quasi come una sventura legata ad un incendio o ad un’inondazione (come spesso nei sogni di premonizione), ma anche un processo di demolizione, ricostruzione e di rigenerazione. […] (ivi).
Per concludere, con la BD si evidenzia quindi una disorganizzazione della personalità che si mantiene in un tempo tale da consentire una distinzione del disturbo in base al decorso, permettendo ai clinici di stabilire un criterio di durata che li riporta a una diagnosi dello spettro schizofrenico DSM-5.
In sequenza le diagnosi riferite al decorso sono: Disturbo psicotico breve (meno di 1 mese); Disturbo delirante (paranoia - almeno 1 mese e oltre); Disturbo schizofreniforme (meno di 6 mesi); Disturbo schizofrenico (oltre i 6 mesi). Con questo, vogliamo sottolineare le linee di sviluppo verso le quali può condurre un quadro di BD. Naturalmente, il criterio temporale di durata andrà accostato e confrontato con tutto il quadro clinico e visto in profondità attraverso la valutazione completa della personalità.
L‘immagine allo specchio
Esponiamo un caso cinematografico nel quale la bouffée delirante è raccontata in modo accurato.
L’immagine allo specchio è un film di Ingmar Bergman girato in Svezia nel 1976.
La protagonista del film Jenny (Liv Ullmann) è una giovane donna, medico e psichiatra, assistente del primario del reparto di psichiatria, sposata, con una figlia di quattordici anni. Jenny, in attesa di traslocare nella sua nuova casa si trasferisce in quella dei nonni, luogo dove si svolge la maggior parte del film e teatro della sua crisi di follia.
La prima scena si svolge nell’appartamento vecchio ormai vuoto; il trasloco è appena stato finito, squilla il telefono, Jenny risponde e ci appare come una donna dolce, mite e gentile.
La scena prosegue nell’ospedale dove lei lavora e dove attualmente ha in cura una giovane paziente, Maria, affetta da schizofrenia catatonica.
Trasferitasi a casa dei nonni, durante i primi giorni di permanenza tutto sembra scorrere tranquillamente, tranne due episodi che precedono la crisi: in entrambi Jenny ha delle allucinazioni visive. La prima, è un’allucinazione vera e propria: mentre entra nel palazzo dove vivono i nonni, l’immagine della nonna di qualche anno prima. Nella seconda allucinazione, di tipo ipnagogico (allucinazioni visive che si hanno nel passaggio dal sonno alla veglia), le appare una vecchia (la nonna?) con gli occhi di vetro.
Nel dialogo successivo tra lei e la nonna colpisce l’eccessiva armonia e gentilezza in contrasto all’assoluta mancanza di reale affetto, ma ancor di più sorprende la passività di Jenny che non tenta di reagire nemmeno quando l’anziana, alla notizia che la nipote svolge le funzioni di primario, si preoccupa solo che il compenso economico sia adeguatamente alto.
Nella scena che segue Jenny parla con il primario che, dopo averle espresso il suo scetticismo sulla curabilità dei malati di mente, le chiede di recarsi ad una festa organizzata dall’ex moglie, una donna anziana “stravagante”, per festeggiare il suo fidanzamento con un giovane omosessuale. Alla festa Jenny conosce un collega internista il dottor Tomas (Erland Josephson), con il quale inizia una relazione particolare; sin dall’inizio i loro discorsi sono affettati e superficiali, non diventano mai profondi ed intimi pur riguardando cose personali: il sesso, le relazioni extraconiugali di lei, la separazione dalla moglie di lui.
Durante la notte, Jenny riceve una telefonata da uno sconosciuto che la informa di aver portato la sua paziente, Maria, nel suo vecchio appartamento; giunta immediatamente lì, la psichiatra subirà un tentativo di violenza da un ragazzo, che precedentemente aveva abusato anche della malata, ma il tentativo fallisce, perché Jenny “è troppo stretta e non è penetrabile”. Alla violenza la donna reagisce in un modo del tutto passivo; non si ribella né fisicamente né internamente; fa come se niente fosse accaduto; il giorno dopo si reca ad un concerto di musica classica con Tomas.
Jenny si sforza di apparire normale, ma nella realtà qualcosa è cambiato: gli sguardi degli altri la spaventano. Tuttavia, per gran parte della serata riesce a nascondere la gravità del suo stato, infatti Tomas non se ne rende conto, né coglie la stranezza dei suoi discorsi enigmatici, come quando lei gli chiede se “è sufficiente uno sforzo di volontà affinché tutto rimanga come al solito”. L’uomo percepisce solo lo stato d’angoscia e le offre due sonniferi, e proprio in quel momento Jenny, mentre sta per addormentarsi, gli racconta dello stupro e delle sensazioni provate: desiderava essere penetrata da quel ragazzo, ma non poteva perché si sentiva “chiusa e contratta”. Dopo, inizia a ridere e a piangere in modo isterico, ed entra nella crisi manifesta. Tornata a casa dei nonni, dorme per due giorni di seguito, svegliandosi solo la domenica al suono delle campane. In casa è sola, ma ora si sente calma, l’ansia non c’è più, il comportamento è normale, può telefonare a Tomas e scusarsi con lui, magari invitandolo fuori.
Improvvisamente, mentre è al telefono con lui, ricompare l’allucinazione della vecchia con gli occhi di vetro. Jenny percepisce che tutti gli sforzi di volontà non sono serviti a nulla, la follia è in lei, non c’è speranza, è come paralizzata, non riesce a rispondere al telefono, va verso il letto e comincia ad ingerire sonniferi, prima uno poi tanti, vuole uccidersi, ma dice: “non ho paura, non mi sento sola, anzi provo una sensazione piacevole” e si addormenta.
Seguono diversi sogni; nel primo Jenny con un vestito rosso dell’epoca rinascimentale, si aggira nella casa dei nonni dove c’è tanta gente e un odore nauseante, la nonna le racconta la fiaba della bambina maltrattata da due vecchi, lei ha paura, non vuole ascoltare, poi compare di nuovo la vecchia con gli occhi di vetro. Jenny scappa e va verso una porta che una volta aperta le permetterà di svegliarsi, ma la voce di Tomas le dice di non farlo altrimenti scoprirebbe delle cose orrende.
Parlando con lui si rende conto di aver tentato il suicidio e aver fallito; ora è spaventata dalle conseguenze neurologiche e Tomas non la rassicura affatto; le comunica anzi che ha riportato lesioni irreversibili al cervello, e che morirà ma non subito, i medici faranno di tutto per farla restare in vita. Allora, dovendo morire, Jenny vorrebbe aprire quella porta, e chiede a Tomas se sa cosa c’è dietro, lui le risponde di no, ma di averglielo impedito perché “noi non abbiamo paura degli orrori che conosciamo, solo di quelli che non conosciamo e che ci spaventano”, poi afferma che per non mettersi nei guai uscirà dal suo sogno. Rimasta sola, Jenny cerca la nonna, ma trova solo la vecchia dagli occhi di vetro, che la accarezza da dietro.
Jenny si sveglia, è in ospedale, accanto a lei c’è Tomas che le racconta come sono andate le cose, ma lei ha ancora troppo sonno, così si riaddormenta e sogna ancora: è a casa dei nonni, la nonna la chiama per iniziare le visite ai suoi pazienti che ora si svolgono lì a causa del nuovo regolamento. Sono tutte donne, e fra loro c’è anche sua figlia, Anna, che vedendo la madre scappa. A questo punto Jenny si sveglia.
Nel frattempo è arrivato il marito; i due parlano del tentato suicidio con distacco, lei si preoccupa di avere un odore sgradevole, lui di comunicarle di dover ripartire subito per un congresso e di cosa dire alla nonna. Jenny sembra sollevata dalla notizia, gli chiede di perdonarla e lo congeda. Segue un altro sogno in cui compaiono i genitori, i quali non la riconoscono, così lei disperata prima li rassicura sulla sua salute, poi, quando loro si chiudono in stanza come facevano quando era piccola, cerca di farli uscire ricordando i bei tempi, ma una volta usciti li caccia via picchiandoli e gridando: “Voglio che spariate per sempre, e non voglio vedere più le vostre facce tristi!”.
Tomas, nel dialogo successivo le confida la sua omosessualità e la sua storia, durata cinque anni, con quell’attore, il festeggiato del party dove lui e Jenny si erano incontrati.
Subito dopo Jenny, in sogno, vede se stessa in una bara, sullo sfondo c’è Tomas e i genitori che piangono, delle persone mettono i chiodi alla bara, la donna dentro è ancora viva ed urla, allora Jenny con una torcia appicca il fuoco.
Svegliatasi, racconta a Tomas che da piccola aveva paura della morte, ne era circondata, prima il suo cane, poi i genitori morti in un incidente d’auto, infine il cugino morto di poliomielite, qualche giorno dopo essersi dati un bacio. Poi, ricorda la relazione, avuta prima di sposarsi, con un artista folle, un rapporto strano, nel quale lui le rimproverava la sua totale frigidità e lei rispondeva con tradimenti ripetuti e dichiarati per dimostrare la sua incapacità di farle provare l’orgasmo. L’amore e la morte, come recitava una poesia, per Jenny appartengono l’uno all’altra e si completano a vicenda.
Nella scena successiva Jenny parla della sua infanzia, il rapporto con il padre buono, con la madre dura e succube della nonna, sempre presente nella loro vita.
La madre e la nonna disprezzavano l’uomo e le sue coccole rivolte a Jenny, la quale per far contenta la nonna cominciò ad allontanarsi dal padre. Jenny aggiunge che quando nacque sua figlia Anna, era tanto infastidita dal suo pianto, da pensare che lo facesse apposta, e a volte era sul punto di picchiarla per questo.
Ad un tratto, raccontando una lite tra la madre e la nonna durante la quale quest’ultima aveva la voce dura e una faccia tanto diversa e cattiva da non essere riconoscibile, inizia a rivivere come in trance tutte le situazioni passate con la nonna come se fossero attuali, e ripete i dialoghi, ora imitando la voce della nonna ora quella di lei bambina.
Comincia poi ad urlare e a battere i pugni sul muro come se la nonna, ancora una volta per punirla, l’avesse chiusa nell’armadio al buio e alla fine si riprende e torna in sé: la crisi è passata. Entra l’infermiera e l’avverte dell’arrivo di Anna; intanto Tomas dopo aver predisposto le sue dimissioni, le annuncia di essere in partenza per la Giamaica dove starà per lungo tempo; Jenny lo saluta e va dalla figlia, alla quale cerca di spiegare cosa è accaduto, ma dopo un iniziale avvicinamento il loro rapporto torna distaccato e freddo come al solito. Nella scena finale Jenny torna a casa dei nonni: tutto è uguale a prima. La nonna gelidamente sminuisce la sua malattia e la sofferenza giustificando il comportamento del marito ripartito subito, e non perde tempo a comunicarle che il nonno sta morendo. Osservando i due vecchi insieme, Jenny vede quello che aveva sempre pensato: “l’amore abbraccia tutto anche la morte”.
Telefona in ospedale per annunciare il suo ritorno, ma dalla scritta conclusiva sappiamo che alla fine dell’incarico temporaneo darà le dimissioni, si separerà dal marito ed andrà in America a fare lavoro di ricerca.
Il film mostra bene il rapido passaggio dalla normalità dei comportamenti (non a caso la protagonista è una psichiatra) al vorticoso ingresso nel delirio. La personalità di Jenny non nasconde le sue fragilità presenti e passate. Il mondo di Jenny, interno ed esterno, prende posto nella rappresentazione sul filo di un mirabile racconto che non trascura alcun particolare. Le radici di quello che sarà un grave anche se breve disturbo psicotico si scorgono con chiarezza. I genitori la cui morte non è stata elaborata in alcun modo; i nonni figure di attaccamento ambivalenti, il vecchio depresso, la vecchia coriacea e anaffettiva. Jenny ha un marito sfuggente e distaccato e una professione brillante nella quale si butta a capofitto, trascurando la figlia adolescente e rischiando di identificarsi con la sua paziente Maria. Anzi, è proprio il mancato stupro che subisce da parte del violentatore della paziente Maria a innescare la destrutturazione che porterà Jenny nella condizione delirante allucinatoria che abbiamo descritto prima. Deliri oniroidi e sogni agitati si alternano e si fondono con al centro la stessa protagonista, scatenando angosce e idee di morte. L’allucinazione centrale della vecchia allo specchio con gli occhi di vetro segnala un versante rigido e arcigno col quale Jenny dovrebbe fare i conti al proprio interno, invece di porlo fuori di sé agendo un rispecchiamento orrido e terrorizzante.
Il nucleo emotivo-affettivo non mentalizzato viene mostrato nei dettagli col tono fantasmagorico delle scene. Tomas, confidente e affine, offre poca disponibilità per fare uscire Jenny dalla crisi. L’uomo le rimane accanto come testimone della sua esperienza psicotica per poi allontanarsi quando lei riemerge e si ricompone come se nulla fosse. L’amore che abbraccia tutto, anche la morte è un pensiero del ritorno alla normalità, una consolazione della coscienza che riavvolge il mondo emotivo frammentato della crisi. La guarigione a ponte richiude come una lastra di marmo il mondo interno alterato di Jenny. La scelta di dare le dimissioni dal ruolo clinico e accettare un lavoro di ricerca sembra la soluzione difensiva più adatta ad allontanare l’angoscia di una nuova crisi.
Il delirio cronico
Il delirio acuto, come s’è visto, irrompe nella normalità simile a un fulmine a ciel sereno, dimostrando al mondo intero la destrutturazione della personalità di chi ne è affetto, senza lasciare dubbi sulla sua relativa insanità mentale. Insomma, il delirio acuto rivela e connota il soggetto di fronte alla società e all’ambiente umano come delirante. In psicopatologia è assodato che il presupposto di un delirio acuto, ossia di una bouffée delirante, potrebbe essere una personalità che abbia nutrito per molto tempo il sospetto e la diffidenza. Siamo ancora, però, nello slatentizzarsi di un conflitto, dapprima espresso con la depersonalizzazione, caratterizzata dalla ratlosigkeit (perplessità) e poi con la disintegrazione della coscienza a favore di uno stato oniroide, matrice di tutte le teorie che hanno accomunato il delirio al sogno. Come abbiamo visto ne L’immagine allo specchio, il conflitto sfociato nello stato oniroide sparisce nella fase delirante (ma non sparisce l’angoscia anzi il terrore suscitato dalle allucinazioni visive). Il conflitto riemerge dopo la guarigione a ponte, cioè appena il soggetto ritorna al contenimento del proprio nucleo emotivo-affettivo non mentalizzato, ricostruendo meccanismi di difesa vecchi e attivandone di nuovi (nel caso di Jenny, la fuga dalla professione clinica verso la ricerca pura). Il delirio acuto è tale solo se mette in dubbio le categorie kantiane dello spazio e del tempo (Jeanneau, 1990), altrimenti non è delirio ma al massimo una crisi dissociativa isterica. La stessa cosa non succede nel delirio cronico.
Il cosiddetto paranoico (affetto da disturbo delirante DSM-5) mantiene le categorie kantiane e utilizza la logica per dimostrare con straordinaria convinzione (prima caratteristica di Jaspers, 1958), senza essere influenzato dall’esperienza concreta (seconda caratteristica di Jaspers), dei contenuti impossibili (terza caratteristica di Jaspers).
[…] Il delirio del paranoico dà immediatamente l’impressione di possedere qualche cosa che lo differenzia da ogni altro tipo di delirio. Si ha a che fare, in questo caso, con un delirio lucido, coerente, sostenuto da una struttura logica paradossalmente forte che mette spesso in imbarazzo gli interlocutori. Di fronte a dati presentati come irrefutabili, come constatazioni certe che si incastrano mirabilmente tra loro fino a costituire un tutto unico coerente, variamente articolato, spesso del tutto plausibile, l’interlocutore non può non valutare la possibilità che ciò che il paranoico afferma corrisponda al vero. Il sistema delirante paranoico è dotato della caratteristica della plausibilità e come tale in grado di insinuare dubbi difficilmente risolvibili nell’interlocutore. Per questo motivo una entità in fondo così rara come la paranoia può costituire un vero e proprio banco di prova per la psicopatologia. Le affermazioni del paranoico si collocano, dal punto di vista dei contenuti, sul piano della verisimiglianza e della plausibilità: sono affermazioni che paiono avere carattere di realtà. Il paranoico non sostiene ipotesi astruse, fantastiche o inconsistenti, non riferisce incredibili visioni allucinatorie, non vive all’interno di un mondo immaginario-fabulatorio in cui la produzione immaginativa prende il sopravvento sulla realtà. Il paranoico non narra di estatiche esperienze ma riferisce contenuti di pensiero perfettamente verisimili. Nella paranoia inoltre non c’è compromissione dello stato di coscienza (come può accadere invece nelle bouffées deliranti), non sono alterate le coordinate dell’orientamento spazio-temporale, non c’è stato confusionale. Il paranoico è perfettamente orientato nel tempo e nello spazio, lucidamente consapevole della propria identità. […] Rossi Monti, 1984, 2009, p. 32.
Se il delirio acuto aveva i connotati dell’immediatezza e corrispondeva all’irruzione di contenuti emotivo-affettivi più o meno disorganizzati in senso oniroide, nel delirio cronico paranoide si coglie “una struttura logica paradossalmente forte”, tanto da supporre un lavoro che, nel corso del tempo, ha portato alla gestazione e successiva nascita di un sistema ben congegnato e plausibile, in grado di resistere ai dubbi e alle osservazioni dell’ambiente umano.
[…] Da un’analisi tematica dei deliri, effettuata sulla base del loro contenuto, ad opera dei cosiddetti “anatomisti del delirio”, si sposta l’attenzione sul “focolaio matriciale” dell’attività delirante, sul lavoro del delirio. In analogia col lavoro del sogno, il lavoro del delirio si configura come una sorta di gestazione psichica che precede l’estrinsecazione di un delirio. La classica definizione di delirio come idea errata ed incorreggibile diventa allora solo una risposta esteriore al problema della demarcazione. Delirio e non-delirio si muovono entrambi tra “vero” e “falso” ed entrambi tradiscono le penose incertezze di questo cammino. […] Rossi Monti, cit. (2009), p. 39-40
Per definire la caratteristica del delirio paranoide, al fine di differenziarlo dal delirio nella BD, dobbiamo ricorrere a una concezione strutturale e stabilizzata nel tempo che la maggior parte dei clinici chiama sistema delirante. Nel sistema delirante osserviamo il frutto del “lavoro del delirio” ma cogliamo una caratteristica produttiva costante, che ci segnala quanto il soggetto paranoide sia in continua attività per rinforzare il sistema delirante e mantenersi in un equilibrio patologico. Il criterio di stabilità nell’instabilità, già utilizzato nei disturbi di personalità in genere e in quello paranoide in particolare, ci può aiutare a collocare e riconoscere il soggetto nel contesto relazionale e sociale in cui vive.
Una spiegazione efficace avanzata da Rossi Monti (cit.) è quella di proporre una gestalt strutturale del paranoide, composta da un nucleo emotivo-affettivo centrale, circondato da una cintura protettiva, in altri termini definibile come corazza caratteriale. La descrizione in questione non è statica ma prevede una dinamica continua con l’esterno, in grado di offrire una spiegazione nei confronti di caratteristiche cliniche conosciute da molti anni, a partire dal quadro della paranoia secondo Kraepelin.
[…] Si può pensare che la prima costituzione di un abbozzo del futuro nucleo delirante sia compenetrata di elementi a forte carica affettiva. Si costituisce in questo modo non il nucleo ma un suo precursore: matrice primordiale di quello che, attraverso l’interazione con il mondo esterno e con elementi cognitivo-intellettivi, diventerà il vero e proprio nucleo del delirio. La matrice primordiale si configura come nucleo allo stato embrionale, agglomerato, organizzazione, più che struttura, in cui frammenti diversi, in uno stato di fluttuante instabilità, si ammonticchiano tra loro costituendo una sorta di proto-nucleo del delirio. […] p. 79
[…] Il proto-nucleo affettivo finisce per vestire panni cognitivi che ne modificano e irrobustiscono la struttura, stabilendo un particolare rapporto con la realtà. Di fronte a fatti diventati problematici in virtù di un forte investimento affettivo, il nucleo elabora una strategia che si situa sul piano delle modalità cognitive, della intellettualizzazione fino a dissimulare il suo nocciolo più antico, il proto-nucleo ad alta carica affettiva. […] Il nucleo del delirio non si configura quindi come solo affettivo o solo cognitivo e nemmeno è dato dalla somma di una componente affettiva e di una cognitiva, aggiuntasi come elemento posticcio in una successiva fase evolutiva, ma è al contempo, insieme affettivo e cognitivo.[…] p. 80
[…] mentre il nucleo ha una struttura che è al contempo affettiva e cognitivo-intellettiva, la cintura protettiva è costituita quasi esclusivamente in base a modalità cognitivo-intellettive. Il nocciolo solido del sistema delirante viene in questo modo avvolto da fitti strati lamellari che lo occultano e proteggono da sguardi indiscreti. La cintura protettiva svolge un duplice ruolo difensivo: da un lato “nasconde” il nucleo all’interno del quale sono sciolti assunti di base dotati di forte carica affettiva; dall’altro difende il nucleo da eventuali attacchi critici che, confinati nell’ambito della cintura, vengono strategicamente tamponati. […] Rossi Monti (cit.) p. 81.
Dal nostro punto di vista, non è difficile collegarsi a quanto esposto e riconoscere un impianto strutturale che possiamo tradurre nei termini del metodo IRPPI (cfr. Compendio etc., cit.). In tal senso, possiamo dire che il nucleo nel quale “sono sciolti assunti di base dotati di carica affettiva” corrisponde a ciò che definiamo elemento protomentale non mentalizzato, cristallizzato dalla sinergia tra elementi emotivi e credenze (assunti di base), tale da costituire un “nocciolo solido”, ossia ciò che veramente alimenta il sistema delirante. La cintura protettiva, ovviamente è definibile come duplice meccanismo di difesa: da un lato, rimuove la mentalità delirante (declinata secondo la varie sfaccettature di persecuzione, rivendicazione, fissazione), mostrando una normalità apparente e rispettosa dei parametri spazio-temporali kantiani, dall’altro lato, instaura con l’ambiente umano e sociale una dialettica che si oppone agli attacchi critici, utilizzando argomentazioni non solo logicamente coerenti ma perfino scientificamente plausibili.
Psicopatologia della paranoia
L‘inquadramento del disturbo delirante cronico, che storicamente è stato definito paranoia da Kraepelin, si presenta come lo sviluppo in senso psicotico di una personalità patologica. Fin dall’inizio, ha avuto un suo aspetto specifico e differenziato da altre manifestazioni deliranti, ossia da un lato la psicosi maniaco-depressiva, dall’altro la dementia praecox (poi schizofrenia). Kraepelin contesta il collocamento della paranoia all’interno di ipotetiche “patologie primarie dell’intelligenza”. Per lui, la divisione tra problematiche affettive e intellettive non è clinicamente rilevante. Preferisce parlare di “sistema delirante durevole, immutabile” e sottolineare l’inizio lento e subdolo, e la fine destinata a una cronicità senza possibilità di risoluzione.
[…] vi è senza dubbio un gruppo di casi nei quali le rappresentazioni deliranti formano, se non il solo, almeno il carattere morboso che maggiormente risalta. In questi suole svilupparsi molto lentamente un sistema delirante durevole, immutabile, accanto ad una perfetta conservazione della lucidità, come dell’ordine nel pensiero, nella volontà, nell’azione. A queste forme io vorrei riservare il nome di paranoia. Esse conducono necessariamente ad una profonda trasformazione del concetto complessivo della vita, ad uno “spostamento” del punto di vista che il malato occupa di fronte alle persone e agli avvenimenti del suo ambiente.
Sembra che lo sviluppo di questa malattia si compia sempre gradualmente. L’inizio, che spesso dura per interi anni, è costituito da lieve depressione, da diffidenza ed anche da disturbi somatici, indeterminati e da timori ipocondriaci. […] p. 488
[…] con lo sviluppo del delirio di persecuzione procedono, di regola, idee di grandezza. Qualche volta queste rimangono nei limiti di un elevatissimo sentimento di sé. La stessa enormità di tutti i potenti mezzi che il malato crede rivolti contro di lui indica una rilevante esagerazione nell’apprezzamento della propria personalità, supposta centro di tutte queste azioni. […] p. 490
[…] L’insorgere di tutte queste immagini deliranti ha luogo essenzialmente per l’interpretazione morbosa di avvenimenti reali. Qualche volta percezioni reali vengono interpretate in senso di nocumento. Impressioni interamente indifferenti acquistano per il malato un rapporto segreto con la propria persona, […] p. 492
[…] Il carattere comune a tutte le idee deliranti, insorte per la vie più diverse, è la assoluta impossibilità a rimuoverle, che si può far dipendere da un lato dal loro tono emotivo, dall’altro da una certa debolezza di critica dei malati. […] p. 494
[…] Il decorso ulteriore della malattia è di regola molto lento, e per lo più esso rimane stazionario durante parecchi anni. I malati sono tranquilli, coscienti, mantengono in modo duraturo un contegno esteriormente ordinato e sono spesso perfino in grado di occuparsi bene intellettualmente. […] Kraepelin (1904) p. 497.
Il contraltare del concetto di paranoia kraepeliniano è rappresentato in Francia, quasi nello stesso periodo, dal delirio d’interpretazione o folie raisonnante. L’acume nosografico della psichiatria francese colloca il disturbo tra i “deliri cronici sistematizzati che hanno una natura costituzionale e che non modificano la personalità, della quale sono l’esagerazione, e non si concludono con un difetto intellettivo” (Serieux, Capgras, 1909). Gli autori citati sottolineano di volersi interessare solo a una parte dei deliri inclusi da Kraepelin nella paranoia. Quest’ultima, infatti prevede al suo interno sia i deliri interpretativi (come vedremo), sia quelli di rivendicazione (rivendicazioni di cose e diritti ossia la querulomania; rivendicazioni di meriti o scoperte, da parte di inventori stravaganti; rivendicazioni politico-sociali, cioè avanzate dai cosiddetti mattoidi sec. Lombroso,1876).
La sottigliezza di separare il delirio di rivendicazione (detto anche dei pérsecutés-persécuteurs) dal delirio interpretativo, non corrisponde solo a una necessità di finezza nosografica ma, a nostro avviso, rivela una capacità discriminatoria che poteva essere inutile per lo psichiatra kraepeliniano, interessato al custodialismo e rassegnato all’esito dell’incurabilità delle psicosi. Molto utile, invece, si rivela anche ai giorni nostri per gli psichiatri, psicologi e psicoterapeuti, interessati a riconoscere la struttura di personalità dei loro pazienti e riuscire a sollecitarne le risorse interne.
[…] il delirio di rivendicazione, per via dei suoi sintomi, etiologia, patogenesi, evoluzione, presenta tratti caratteristici che giustificano la collocazione autonoma che abbiamo creduto di accordargli dal punto di vista nosografico. In particolare conviene distinguere dal delirio basato su interpretazioni questa psicosi basata su rappresentazioni mentali esagerate o ossessive. Che queste due forme presentino delle affinità, non è da dubitare. Ma se nelle due psicosi si può svelare l’esistenza di idee prevalenti, nell’una (delirio d’interpretazione) l’idea prevalente, una volta installata grazie a interpretazioni sbagliate multiple, diventa un nucleo intorno al quale si organizza un sistema delirante complesso; nell’altra (delirio di rivendicazione) l’idea prevalente, o ossessiva, determina uno stato affettivo cronico e reazioni abnormi. […] p. 328
[…] Nel delirio di rivendicazione c’è una protesta espressamente formulata, un fatto iniziale al quale il malato ritorna sempre nei suoi ragionamenti o nei suoi scritti e dal quale ricava tutte le sue deduzioni: c’è un danno subito, una ingiusta condanna, una missione determinata… - Nel delirio d’interpretazione, al contrario, non si trova questo fatto iniziale, questa formula concisa che ossessiona il rivendicatore. L’idea prevalente non si traduce, all’inizio, in maniera concreta; è più una forma mentis che un’idea: il malato ha una tendenza predominante alle idee di persecuzione, o alle idee di grandezza, o alle idee mistiche…, ma esprime ciò in maniera imprecisa. Solamente in seguito, e in generale grazie a un’interpretazione retrospettiva, egli trova i fatti decisivi che sono alla base del suo sistema.
Ben differenti sono le interpretazioni. Quelle del rivendicatore si manifestano unicamente attraverso deduzioni che gli detta la sua passionalità. In certi fanatici o riformatori, gli errori di giudizio, riguardando idee astratte, si formulano in teorie più o meno strane, prodotte dall’immaginazione o dai sogni. ll contestatore, essendo la sua convinzione acquisita in primis e appoggiata su un solido fascio di prove, non cerca di raggruppare intorno ad essa, in una sorta di romanzo delirante, interpretazioni multiple; quest’ultime compaiono per spiegare i suoi guai, e non superano questo limite. In occasione di un processo perduto egli accusa giudici e avvocati di parzialità o di corruzione, e, uscendo dal tribunale, potrà non apprezzare i gesti e le parole del pubblico, ma non si concentra minimamente su un gesto o un piccolo incidente, su un grido di un passante o su canti di bambino per costruire un delirio complesso; non attribuisce ai malefici dei suoi nemici tutti i malesseri organici che prova…E non sente mai il bisogno d’imbastire un delirio retrospettivo, non perviene mai a una concezione delirante del mondo esterno, non raggiunge mai la megalomania sistematica: egli non modifica mai il suo nome, non s’inventa titoli immaginari, non rinnega la sua famiglia, non si attribuisce ricchezze colossali, non si proclama re.[…] Serieux, Capgras, 1909, p. 260-261.
L’importante evidenziazione del delirio di rivendicazione e il rilievo delle differenze col delirio d’interpretazione fa affiorare ai nostri occhi una struttura diversa, nella quale il nucleo emotivo-affettivo si esprime con l’accanimento dei pazienti, spesso tutta una vita, al fine di tamponare un fallimento o un’importante perdita dell’autostima avvenuta in una fase delicata del loro sviluppo psicofisico. Detto in altri termini, un trauma più o meno interno spinge il soggetto verso un tentativo di ribaltare la crisi o le crisi che lo hanno visto soccombere a suo tempo. Rinforzatosi, con l’acquisizione di mezzi intellettuali e la gestione delle opportunità dialettiche presenti nella società, il rivendicatore costruisce e alimenta un narcisismo maligno, che gli permetterà di “combattere” da pérsecuté-persécuteur contro i denigratori e i mancati risarcitori della sua incessante “guerra santa” per ottenere giustizia. In sostanza, la distinzione operata da Serieux e Capgras colloca il delirio di rivendicazione tra le psicosi affettive, nelle quali il soggetto, predisposto dal carattere, agisce in modo eccitato e iperattivo per affermare l’idea di riscatto e ottenere la riparazione di una ferita alla sua autostima. Il delirio d’interpretazione, invece, sembra il risultato di un’apposizione di strati (come la cintura protettiva, cfr. Rossi Monti, cit.) che circondano un nucleo troppo fragile per ingaggiare una lotta rivendicativa con l’ambiente umano e la società. Come la perla si forma dal nucleo originario di un granello di sabbia, così il delirio interpretativo dà luogo a un complesso sistema delirante che nasconde a tal punto il nucleo fragile del soggetto da mascherarne per sempre la natura emotivo-affettiva e mostrarne solo quella intellettuale e complessa, rappresentata dal sistema delirante.
Deliri passionali e deliri interpretativi
Un ulteriore approfondimento è quello di Gaëtan Gatian de Clérambault (1942), il quale propone di includere il delirio di rivendicazione tra i deliri passionali (erotomania, gelosia, querulomania), proponendo una specifica diagnosi differenziale rispetto al delirio d’interpretazione. L’argomento fondamentale di de Clérambault è quello che il delirio passionale deriva da una “cellula-madre”, ossia da un’idea prevalente che si sviluppa e si esprime lungo tutto il decorso del disturbo. Sarebbe un’anomalia della personalità “a settore”, cioè in modo circoscritto, laddove il delirio interpretativo si dipana circolarmente, fino a costituire una “rete” intricata, nella quale non si riconoscono più le motivazioni iniziali, per via della costituzione di un sistema delirante inattaccabile ed esteso.
De Clérambault tiene a sottolineare la componente affettiva che sta alla base dei deliri passionali, anche se la cronicità potrebbe produrre complicazioni tali da creare una sovrapposizione deleteria coi deliri interpretativi. Ciò non toglie che l’insistenza dell’autore sulla cellula-madre affettiva indichi una prognosi più fausta per coloro che, benché persecutori degli oggetti del loro delirio (familiari, amanti, datori di lavoro, società in genere etc.), indirizzano la loro rivendicazione contro quegli oggetti nei confronti dei quali sporgono denunce e disperate richieste.
[…] Il delirio erotomanico è una sindrome passionale patologica. Non è un delirio interpretativo.
E’ opportuno riunire questa sindrome con i deliri di rivendicazione e con i deliri di gelosia, alla voce deliri passionali patologici.
I deliri interpretativi si basano sul carattere paranoico, altrimenti detto sentimento di diffidenza. Essi si sviluppano in tutti i sensi, è in gioco la personalità globale del soggetto, il soggetto non è eccitato; i concetti sono multipli, cangianti e progressivi, l’estensione avviene per irradiazione circolare, l’epoca dell’inizio non può essere stabilita, etc.
Le sindromi passionali si caratterizzano per la loro patogenesi, le loro componenti sono sia comuni, sia speciali, i loro meccanismi ideativi, l’estensione polarizzata, l’iperattivazione talvolta fino all’aspetto ipomaniacale…[…] p. 337
[…] Il paranoico delira col suo carattere. Il carattere è, grosso modo (in ital. nel testo), il totale delle emozioni quotidiane minime, diventate abitudine, la cui qualità è prefissata per tutta la vita e la quantità prefissata pressappoco ogni giorno. Nel passionale, al contrario, si produce un nodo ideo-affettivo iniziale, nel quale l’elemento affettivo è costituito da un’emozione veemente, profonda, destinata a perpetuarsi senza fine, e sequestrando tutte le forze dell’animo fin dal primo giorno.
Il sentimento di diffidenza del paranoico è antico, l’inizio del delirio non può essere individuato nel passato; la passione dell’erotomane o del rivendicatore ha una data d’inizio precisa. La diffidenza del paranoico regola i rapporti del sé totale con la totalità dell’ambiente, e cambia la concezione del sé; la passione dell’erotomane e quella del rivendicatore non modificano la concezione che essi hanno di loro stessi, e modificano i loro rapporti con l’ambiente solo nel caso e nell’ambito della loro passione. […]
Il passionale, sia erotomane, sia rivendicatore, sia anche geloso, fin dall’inizio del suo delirio ha un obiettivo preciso, il suo delirio mette in gioco di colpo la sua volontà, ed è là giustamente un tratto differenziale: il delirante interpretativo vaga nel mistero, inquieto, stupito e passivo, ragionando su tutto ciò che osserva e alla ricerca di spiegazioni che scopre gradualmente; il delirante passionale avanza verso un obiettivo, con un’esigenza cosciente, immediatamente completa, egli delira nel contesto del suo desiderio: le sue riflessioni sono polarizzate, come la sua volontà, ed in ragione della sua volontà. […] Essendo tutto il lavoro immaginativo o interpretativo limitato, per così dire, allo spazio che si pone tra l’oggetto e il soggetto, lo sviluppo delle concezioni si farà non circolarmente, ma in settore: se col tempo si allarga la visuale, lo sarà nello stesso settore il cui angolo d’apertura non cambia. Di contro a questo processo, le concezioni nell’interpretativo s’irraggiano costantemente in tutti i sensi, esse utilizzano tutti gli avvenimenti e tutti gli oggetti, in qualche malato, cambiano gradualmente la tematica; la loro estensione è a raggio, il soggetto vive al centro di una rete circolare e infinita. […] de Clérambault, 1942, p. 342-343.
Seguendo la prosa illuminante di de Clérambault, la paranoia assume le sue sfaccettature e il binomio, delirio passionale e delirio interpretativo, prende il sopravvento, non tanto nel senso della dicotomia quanto nel segnalare un continuum lungo il quale si distingue la posizione di chi delira “settorialmente”, spinto e motivato da “un’idea-madre”, mantenendo ancora un contatto adeguato con la propria realtà affettiva e la posizione di colui che intreccia una molteplicità di idee deliranti in un reticolo che si ricrea senza fine, ma è anche colui che scompare come soggetto nel momento in cui dimostra di aver perso le radici personali di una dinamica affettiva con l’altro da sé.
L’importante distinzione di de Clérambault ci spinge fino alle radici del delirio, facendoci notare una diversità nel modo come il delirio procede e si costruisce. Da un lato, ci sono i deliri passionali dove l’idea prevalente è presente all’inizio e lungo tutto il decorso (ad es. l’erotomane e l’idea di essere amato da una certa persona, contro tutte le evidenze della cosa; oppure il rivendicatore, fissato nell’idea di un risarcimento o un riconoscimento che egli reclama ad ogni costo; o il geloso delirante, straconvinto del sicuro tradimento del partner amato). Dall’altro lato, c’è il delirio interpretativo, la cui idea-madre è sparita da tempo per lasciare il posto a una produttività incessante, composta da una rete di maglie sempre più intricate e numerose, a causa dell’attività interpretativa che non proviene da una sola idea prevalente ma da un numero imprecisato e imprevedibile di spunti.
[…] Le prime e principali convinzioni dell’erotomane sono ottenute per deduzione da un postulato. Nulla di simile s’osserva nell’interpretativo. Non si vede in lui alcuna idea-madre da dove nascerebbero catene d’idee; le sue idee partono da tutti i punti, per così dire, della sua mente; certamente sono coordinate ma non subordinate tra loro, né soprattutto subordinate a una sola. Sopprimete dal delirio di un interpretativo la tale concezione che vi sembra la più importante, sopprimetene anche un gran numero, avrete percepito una rete, non avrete rotto l’intreccio; la rete persisterà immensa e altre maglie si riformeranno da sole. Al contrario, sopprimete nel delirio passionale questa sola idea che io chiamo il postulato, cade tutto il delirio. […]
[…] Alcune convinzioni dell’interpretativo non si può dire siano l’equivalente del postulato. Non c’è idea direttrice. Il postulato ha il carattere d’essere primario, fondamentale, generatore. Le convinzioni esplicative dell’interpretativo sono secondarie a innumerevoli interpretazioni. Non c’è, in tali deliri, cellula-madre. E’ inesatto dire che nell’interpretativo ci sia un’idea prevalente […] Il termine idea prevalente, preso in senso stretto, si adatta bene solo ai passionali. […] de Clérambault, 1942, p. 343-344-345.
Il caso di Michael Kohlhaas
In un racconto scritto nel 1808, Heinrich von Kleist espone un caso ispirato a un fatto storico del XVI secolo.
Il commerciante di cavalli brandeburghese Michael Kohlhaas, recandosi alla fiera di Lipsia per vendere alcuni esemplari pregiati trova la strada sbarrata. Lo junker Wenzel von Tronka, nuovo padrone delle terre sassoni oltre l'Elba, ha deciso di imporre una tassa per il transito, e come pegno gli trattiene due bei cavalli morelli. Conclusi i suoi affari, e avuto conferma dell'illiceità della tassa, al suo ritorno il commerciante ritrova i cavalli in condizioni pietose, ed alla sua protesta viene trattato in modo arrogante. Michael decide quindi di non riprendersi i cavalli e di chiedere giustizia per il sopruso subìto. Un inserviente che aveva lasciato con i cavalli gli conferma quanto sospettava, ossia che von Tronka aveva fin dall’inizio voluto i cavalli per impiegarli nel lavoro dei campi.
Nonostante i suoi sforzi, Michael non trova giustizia per vie legali, a causa di connivenze e coperture messe in atto dai parenti complici dello junker. Invia allora sua moglie con una supplica direttamente nelle mani del sovrano tedesco ma finisce nel peggiore dei modi: la donna rimane uccisa per leggerezza in una serie di equivoci. Per Kohlhaas la misura è colma e la rivendicazione di giustizia prende corpo (cellula-madre di de Clérambault). La determinazione di Kohlhaas è definita e senza esitazioni: invia un'ingiunzione perentoria allo junker e allo scadere dei termini assale il suo castello uccidendo chiunque gli si oppone. Non riesce però a mettere le mani su von Tronka, il quale sfugge alla cattura. Nel suo inseguimento, Kohlhaas diventa il condottiero di file di sbandati e persone in cerca di fortuna, esaltati e cooptati dalla sua capacità carismatica e di trascinamento, fino a farne un drappello in armi con cui semina il terrore a Wittenberg, dove lo junker si è rifugiato. Kohlhaas, forte del suo successo in battaglia, si dirige verso Lipsia, credendo di trovarvi l'obiettivo della sua vendetta. Lutero, suo contemporaneo, condanna aspramente i suoi atti e riesce a spingere il ribelle a un ripensamento. I due s’incontrano in segreto, e Michael chiede che il suo caso venga giudicato finalmente in modo obiettivo, ottenendo un salvacondotto in questo senso.
Dopo l'accoglienza del suo ricorso per l'intercessione di Lutero presso le autorità sassoni, Kohlhaas congeda la masnada al suo seguito e si reca per il processo a Dresda, dove viene bloccato dalle autorità. Anche i cavalli vengono rintracciati, ma ne deriva un incidente che mette in cattiva luce la causa di Kohlhaas. Le cose precipitano quando un suo luogotenente, Johann Nagelschmidt, riprende le scorribande insieme alla masnada senza freni, cercando di usare il nome di Kohlhaas per garantirsi l'appoggio popolare. Dato che la permanenza in città diventa di fatto una prigionia, Michael, sentendosi tradito, accoglie l’offerta d'aiuto di Nagelschmidt, il quale, d’accordo con le autorità lo tradisce e provoca la sua tradotta nelle prigioni.
Nel trasferimento verso Berlino, dove si svolge il processo, Kohlhaas si ritrova a pernottare vicino all'accampamento del Principe, il quale è impegnato in una battuta di caccia. La curiosità spinge il Principe ad incontrare quell'uomo fonte di tante preoccupazioni, mantenendo celata la propria identità. L’incontro, tra intrecci e dettagli riguardanti un foglietto posseduto da Michael e redatto da una zingara, spinge il Principe a modificare radicalmente la propria linea d'accusa nel processo intentato a Kohlhaas, chiedendone la sospensione senza successo. Al proprio ciambellano, sconcertato da questo voltafaccia, il Principe rivela infine che nel foglietto c’è la predizione sulla caduta della propria casata, avvalorata da un'altra profezia avveratasi in quell'occasione. Il servitore mette allora in atto un espediente per sottrarre il documento al recluso, inviando una falsa zingara che si rivela però la vera autrice delle profezie, la quale mette in guardia Kohlhaas sulle mire del Principe elettore sassone, consigliandogli dapprima di usare quelle informazioni per salvarsi, ma in seguito ai suoi dubbi lo lascia libero di decidere secondo coscienza. Alla conclusione del processo la condanna a morte è confermata, ma il desiderio di giustizia dell'uomo è soddisfatto, poiché anche il suo avversario von Tronka è condannato per il trattamento a lui inflitto. Kohlhaas può quindi avviarsi senza rimpianti al patibolo. Qui Michael può togliersi anche l'ultima soddisfazione: venuto a sapere della presenza tra il pubblico del Principe sassone e della sua intenzione di sottrargli il foglietto dopo la sua morte, lo ingoia davanti ai suoi occhi, distruggendolo.
La narrazione sublime del Kohlhaas soddisfa anche tutti i criteri cui abbiamo accennato a proposito del delirio di rivendicazione. L’assurda sproporzione tra la ferita all’autostima (da parte di un nobile nei riguardi di un borghese in uno Stato feudale, sic!) e la reazione del soggetto, con tanto di eventi catastrofici a catena, mette bene in risalto la metamorfosi che il “postulato” delirante può fare nella mente del rivendicativo. Il concetto di delirio “a settore” è ancor più dimostrato nella indubbia capacità carismatica che Michael esercita nei confronti di una specifica categoria non solo sociale ma anche mentale: gli sbandati. Forte del suo rancore, votato al recupero della sua bassa autostima che gli fa avvertire un fallimento esistenziale, Kohlhaas non trascura di trascinare con sé scialbe figure che sembrano aspettare il suo richiamo per svegliarsi da una rassegnazione irreversibile. Michael invece non è rassegnato e per due cavalli scatena una guerra, mette a repentaglio la donna amata per una banalità e arriva pure a minacciare la stabilità del Principe, non per motivi politico-sociali ma per sfidare la coerenza del regnante sulla giustizia. Nel confronto con Lutero, autentico ribelle e innovatore, Kohlhaas sembra una sagoma della ribellione. Non vuole cambiare le cose, non ha un progetto per il futuro: vuole solo rivendicare due cavalli massacrati e l’ingiustizia di averli persi per niente. Nella sua mente, una bilancia schematica fino alla morte non misura il valore umano ma quello astratto e cristallizzato nella tradizione del feudo. La sua dote di condottiero, il carisma gestito verso gli sbandati senza tetto né legge viene sprecato per raggiungere l’obiettivo prefisso: ottenere la condanna di chi lo ha danneggiato rovinando i due cavalli. La sua virtù carismatica, prima al servizio della vendetta e poi per neutralizzare un fallimento esistenziale, produce solo morte e distruzione, o creazione di seguaci e discepoli che, sganciati dalle sue motivazioni rivendicative, stringono patti e collegamenti con le stesse autorità che egli combatteva col suo accanimento fanatico. La furia rivendicativa di Kohlhaas non produce riscatto se non nella mente del lettore del racconto. Kohlhaas morirà riuscendo a far condannare chi l’ha offeso ma agendo un’ultima stoccata nei confronti del potere assoluto del Principe. L’assurdo postulato della giustizia a qualunque costo ha preso il posto del senso della misura e dei limiti (Minkowsky). Il “settore” intransigente della sua mente inibisce tutti gli altri settori più umani e affettivi. Il buon senso della vita precedente l’offesa ricevuta è messo da parte dall’attivazione irreversibile di un giustizialismo, che ottiene soddisfazione solo nell’empireo idealizzato del persecutore-perseguitato.
Il caso di Adele Hugo
In un film Adele H del 1975, François Truffaut narra la storia della seconda figlia di Victor Hugo, Adele, prendendo spunto dai suoi diari pubblicati nel ‘68. Il sottotitolo italiano “una storia d’amore” è in realtà fuorviante; il film narra di un amore impossibile e cieco tra Adele e Albert Pinson, ufficiale ussaro inglese. La vera vicenda è tragica; la storia di una rivolta disperata e suicida di una figlia nei confronti del padre troppo grande e troppo famoso.
Le prime scene ci mostrano Adele che lascia l’isola di Guernsey dove Victor Hugo, per l’opposizione al colpo di stato di Napoleone III, è costretto all’esilio con la sua famiglia. Vestita di bianco con abito nuziale, Adele di fronte ad un mare in tempesta proclama “quella cosa incredibile da farsi per una donna, che non abbia altro pane che quello di cui suo padre le fa elemosina... quella cosa incredibile di camminare sul mare, passare dal vecchio al nuovo mondo per raggiungere il proprio amante... io la farò!”.
Ad Halifax, città della Nuova Scozia, trova alloggio in famiglia dai signori Saunders. Inizialmente cela la sua vera identità, ma i suoi modi signorili attirano la curiosità e l’interesse delle persone che incontra. Con il padre, oltreoceano, intrattiene un rapporto epistolare ed economico tramite la banca. Qui si reca periodicamente per ricevere il denaro di cui ha continua necessità, dimostrando da subito nei confronti del padre un atteggiamento ambivalente. E’ nel colloquio con la sua affittacamere, colpita da un album di fotografie, che veniamo a conoscenza del rapporto con la sorella Leopoldina, morta tragicamente: “..Leopoldina annegò a 19 anni.” - “e lei poverina…?”. Adele continua, mal celando i suoi sentimenti contrastanti: “Leopoldina era adorata da tutta la famiglia... “, e l’invidia per il rapporto di questa con il padre e con il marito che “per quanto l’amava si lasciò annegare quando si accorse di non poterla salvare”. Rispondendo al rammarico della signora di non avere fratelli, dice: “Non sa che fortuna è stata per lei essere figlia unica!”.
La notte ha un incubo che si ripeterà più volte nel corso del film: sogna di essere trascinata in un vortice e di affogare come la sorella.
Il tipo di rapporto con Albert è evidente già prima del loro incontro ad Halifax; l’ufficiale, infatti, non dà alcun peso al biglietto che lei gli invia. Adele è scossa da questo comportamento e tuttavia scrive al padre “lui mi ama.. mi vuole sposare... ma non farò niente senza il vostro consenso.”
Il giorno dopo rincorre per strada un ufficiale credendolo il tenente Pinson. Passa i giorni e le notti chiusa in casa a scrivere. Consuma intere risme di carta che acquista in una libreria dove, senza essere vista, scorge Albert in compagnia di una giovane amica. E qui apprende dal bibliotecario, che mostra per lei interesse e simpatia, che questi non è cambiato, passa i giorni tra i salotti e le feste, corteggiando le giovani signore e impegnando denari nelle sale da gioco, per nulla interessato a lei.
Successivamente il tenente si presenta a casa dei Saunders per chiarire la sua sconveniente situazione. Colta alla sprovvista, Adele è presa dal panico, si agita, non sa quale abito indossare, perde tempo nel prepararsi. Il tenente, infastidito dall’attesa, sta per andarsene. Quando lei giunge tenta di abbracciarlo; lui rimane rigido, cerca di farla ragionare: “Cosa fai qui?…non pensi alla tua famiglia?…” Ma lei, che ha in mente solo il matrimonio, lo incalza prima con le promesse: …avrò un patrimonio di 40 mila franchi…” e le lusinghe: “per te ho rifiutato il matrimonio con un altro” e poi le minacce: “attento farò di tutto per nuocerti!”. E infine, disperata di fronte alla irremovibilità dell’altro, nel tentativo di trattenerlo, arriva a offrirgli dei soldi per pagare i debiti di gioco.
Da questo momento della storia inizia un graduale disfacimento sia fisico (dimagrimento, trasandatezza, espressione allucinata) che mentale (agitazione notturna, depressione, grafomania, delirio). La sera stessa scrive: “Amore mio, sono così felice ... la cosa peggiore al mondo era la tua assenza”. Invoca in seduta spiritica l’aiuto della sorella, segue Albert, controllando di nascosto i suoi incontri amorosi, senza alcun turbamento anzi con un vago piacere.
Enuncia propositi di redenzione: “Non ho più gelosia… non ho più orgoglio.. voglio pensare alle mie sorelle che soffrono nei bordelli…e nel matrimonio”. Sogna nuovamente di morire affogata; trascura il suo aspetto e non curandosi del fisico si ammala di pleurite ed è costretta a letto. Ma appena guarita riprende ad ossessionare Pinson, lo spia, gli riempie la giacca di bigliettini amorosi (deliranti).
Il consenso del padre di Adele al matrimonio è accolto da Albert nella completa indifferenza, ma lei annuncia ugualmente (“chiamatemi signora Pinson”) il suo matrimonio ai genitori, i quali pubblicano la notizia sui giornali, mettendo l’ufficiale in una situazione sconveniente di fronte ai suoi superiori.
I genitori, una volta avvertiti dell’inganno di Adele, le intimano di tornare immediatamente a Guernsay, ma niente riesce a vincere l’ostinazione della ragazza neanche le notizie della salute precaria della madre né le reiterate richieste del padre, ormai anziano, che desidera averla accanto. Adele gli è ostile, lo ritiene responsabile di non averla aiutata a sufficienza nei suoi intenti. Tratta rabbiosamente il bibliotecario che tenta di conquistarla regalandole i libri scritti dal padre. Nella notte delira nuovamente: “Denuncio l’impostura dello stato civile e la truffa dell’identità.. io sono nata da padre sconosciuto...”
Le frasi si ripetono ossessivamente e in maniera confusa, “due giovani sposi sepolti nello stesso feretro…la morte non ha potuto separarli.“, esprimono paure e sfociano in pseudo-allucinazioni: “…il baule con gli abiti di mia sorella…Non voglio più vederlo!”, urla angosciata coprendosi gli occhi.
Conserva ancora la lucidità necessaria ad impedire il matrimonio di Albert con una ragazza della buona società, ma il conseguente disprezzo del tenente che non comprende la gravità della situazione le fa perdere il controllo.
Lascia la casa dei Saunders e, rimasta senza soldi, va a dormire in un ospizio tra i barboni.
Nell’ultima parte del film la vediamo camminare con i vestiti stracciati e lo sguardo assente nelle strade delle Barbados dove è arrivata per seguire il battaglione di Pinson. Ormai non è più presente. Come una sonnambula si aggira senza meta per le strade, rincorsa dai bambini vocianti. Niente la riporta alla realtà; è totalmente assorbita in un suo mondo visionario. Non vede neanche Albert che le passa accanto e la chiama ripetutamente, tentando inutilmente di farla uscire da quello stato. Ricondotta in Francia da una donna del luogo, è ricoverata dal padre in una casa di salute dove vive altri quaranta anni dedicandosi al giardinaggio e continuando a scrivere il suo diario in codice.
Il film ci mostra un esempio di delirio erotomanico. Nelle prime scene del film vediamo un’immagine apparentemente congrua della protagonista. Comportamento ed esame di realtà non rivelano aspetti inadeguati. Solo alcune sfumature ci possono far pensare a un impianto strutturato nel senso dell’esaltazione. Il proclama iniziale è forse un po’ troppo enfatico e contiene elementi rivendicativi contro la famiglia, ma potrebbe anche essere adeguato ai costumi del periodo storico in cui vive la protagonista. Sono anche stonati alcuni elementi di sospettosità (passa la frontiera di nascosto, nasconde la sua vera identità alla famiglia dove alloggia), che vedremo più che casuali, e sono già caratteristiche peculiari della sua personalità patologica. Singolare è infine, la reazione di Adele quando incontra, non vista, l’ufficiale in compagnia di un’altra donna, senza manifestare apparentemente alcun tipo di emozione.
I rapporti familiari si delineano già nel primo colloquio con la signora Saunders. Adele è piena di rancore nei confronti della sorella più grande e di rabbia per il padre. Leopoldina era la figlia prediletta dal padre, alla quale Adele pensa fossero indirizzati tutte le attenzioni e gli affetti. Adele è cosciente di quanto sia stato frustrante questo rapporto, dicendo alla padrona di casa: “non sa che fortuna sia stata per lei essere figlia unica!”.
E’ in questo ambiente deludente che la personalità della protagonista si sviluppa, partendo da un nucleo depressivo. E’ una depressione “sporca”, che origina su una personalità paranoide e si alimenta all’interno di rapporti familiari insoddisfacenti e sulle ripetute delusioni nel rapporto col padre. Nei suoi confronti la figlia mostra un atteggiamento ambivalente che oscilla tra le continue richieste di denaro e di appoggio incondizionato, e crisi di rabbia con allontanamenti (“sono partita senza avvertire per evitare.., spiegazioni.”) che nascondono la dipendenza. Le separazioni in questo contesto non avvengono attraverso l’elaborazione e il superamento delle situazioni frustranti ma piuttosto con la svalutazione dell’oggetto e il senso d’onnipotenza.
La morte della sorella, giovane sposa, giunge in un momento importante dello sviluppo di Adele, l’adolescenza, e rappresenta un nuovo trauma. Il padre, sconvolto dall’evento (“per poco non impazzì dal dolore”) non coglie le esigenze affettive della figlia minore e, chiudendosi in una depressione, non riesce ad investire su di lei interesse ed affetti. Ciò spinge Adele già fragile a ritirarsi ancor di più in quel mondo fantastico, ricco di sogni, in parte costruito nell’infanzia, e ad isolarsi dai rapporti concreti. Gli affetti violenti, generatisi con le ripetute ferite narcisistiche, non vengono portati all’esterno con crisi di rabbia o reazioni violente, come nelle personalità borderline. Nel caso di Adele, il vuoto affettivo si colma virtualmente, attraverso la costruzione di un pensiero ricco di suggestioni ed idealizzazioni, ma poco aderente alla realtà (pensiero fideistico e superstizioso).
Suggestivo è l’accostamento a un tema caro all’iconografia romantica (Friedrik) che il regista ripropone con l’immagine della donna sola davanti al mare in tempesta. Romanticismo come terreno di passioni forti e grandi ideali, che nel caso di Adele nascondono una struttura di personalità fragile e tendente alle fantasticherie e alla creazione di affabulazioni sentimentali.
Si può ipotizzare che per Adele non sia stato possibile, per l’avversità degli eventi vissuti e l’inadeguatezza affettiva delle figure di riferimento, né una depressione consapevole, pur sempre in qualche modo comprensibile, né tanto meno lo sviluppo di una caratterialità isterica. Tale modalità per realizzarsi avrebbe avuto bisogno di una maggiore attitudine alla modalità del far finta, facilitando uno sdoppiamento più adattativo. (Fonagy).
Nella protagonista, gli affetti anche se alterati, sono presenti ma vengono collocati all’esterno (modalità dell’equivalenza psichica) in forma idealizzata, obbligando l’oggetto d’amore a una forzatura che lo rende vittima.
Per recuperare una coesione della personalità, Adele dovrebbe risolvere la carenza nella relazione d’attaccamento col padre (o con ambedue i genitori). Dedicandosi totalmente al suo interesse inconsistente per Pinson, Adele dimostra però di avere perso la capacità di riconoscere gli aspetti positivi della sua storia affettiva.
Pinson ha una personalità di scarso spessore (narcisistica), non ha sufficiente affettività per rendersi conto della gravità dello stato di Adele. Cerca di utilizzare il buon senso e di farla ragionare, ma l’esame di realtà che le propone è fatto più per evitare problemi a se stesso che per aiutarla. L’ufficiale non è disposto a concedere nulla alla donna (“lasciati almeno amare”) e così facendo finisce per sottrarsi a qualsiasi dinamica. Il risultato è che la matrice affettiva del delirio di Adele viene meno a poco a poco fino alla frammentazione della personalità.
Il bibliotecario del film, timido e insicuro ma affettuoso con Adele: con la sua zoppìa è la metafora di un difetto che rispecchia quello della sua delicata cliente. L’uomo non riesce ad instaurare un rapporto empatico e, regalandole il libro I Miserabili, le ripropone l’identificazione con gli aspetti odiati del padre, provocando una reazione di rabbia.
Lo stesso uomo fragile non riesce a intervenire quando scorge Adele, ormai in pieno delirio, girare per le strade e parlare da sola, manifestando così tutta la sua sindrome delirante. Anche la signora Saunders, protettiva e materna, fallisce nel momento in cui arriva a toccare un suo punto debole (“mi dia retta non pensi più al tenente... non è degno di lei”) proponendole la rassegnazione e la sottomissione al padre. Allora l’orgoglio ferito di Adele si risveglia: “sono io che non ho voluto sposarlo, considero il matrimonio umiliante, il mio lavoro esige la solitudine.”.
L’orgoglio, la diffidenza, l’intransigenza e la vergogna condizionano l’evoluzione verso il delirio a partire da un postulato erotizzato in modo astratto e precostituito.
Il tema delirante del film è simile a quello di tutti i deliri passionali: la pretesa di ricongiungersi all’oggetto che per primo ha amato il soggetto e lo ha desiderato. (“Fosti tu a cercarmi, tu a volermi.., io non ti ho chiesto niente.”). Come un’istantanea del primo contatto, come una cellula-madre da cui deriveranno tutte le altre, il delirio fa perno su un fondo di realtà e invece di consentire al tempo di modificare il postulato iniziale, con le vicissitudini della relazione affettiva, si aggrappa a tutte le aspettative sognanti coltivate in modo astratto dopo lo scatto iniziale pieno di promesse ma annebbiato dall’illusione. I toni espansivi cercano di mantenere il postulato iniziale con grandi proponimenti: “Partire da sola per attraversare l’oceano...raggiungere l’amato”. E’ la fase della speranza o dell’esaltazione come è definita da de Clérambault (cit.) che si manifesta con l’eretismo e la produttività del pensiero e delle sue espressioni come ad esempio la grafomania, che è uno degli aspetti patologici del comportamento di Adele.
La fase del dispetto e quella del rancore sono caratterizzate dall’emergere degli affetti reali: rabbia e odio, (“attento ti rovinerò!”) che compaiono quando Adele si rende conto dell’inefficacia dei tentativi di costringere Albert a sposarla.
Il delirio ha tutte le caratteristiche di uno dei due rami della paranoia (delirio passionale). Nel caso di Adele, questo è ricco di immagini e contenuti perché può basarsi su un vissuto familiare molto stimolante sul piano culturale (ideali liberali e cattolici), e per strutturarsi deve trovare nel soggetto delle capacità cognitive e logiche particolarmente sviluppate, che non tutti possiedono. E’ forse proprio questa capacità di gestire meglio il pensiero piuttosto che il corpo e il comportamento che condiziona l’evoluzione della personalità patologica a partire dalla ferita narcisistica, indirizzandola verso la personalità paranoide, piuttosto che verso la personalità borderline.
Il pensiero di Adele ha già una struttura rigida e, piuttosto che integrarsi con gli affetti, si comporta da inflessibile controllore. Le fantasticherie ed i sogni ad occhi aperti dell’infanzia, nell’adolescenza si danno una forma coerente coagulandosi intorno ad un tema o idea prevalente, l’amore romantico, che Adele ha vissuto attraverso l’esistenza così tanto invidiata della sorella. Questo tema ritorna ossessivamente nei suoi pensieri (“due giovani sposi…neanche la morte potrà separarli”) e deve solo trovare nella realtà conferme per esaltarsi e raggiungere il suo scopo: il matrimonio (“se non si ama tanto da volere innanzitutto il matrimonio non è vero amore”). Tutto il suo agire è subordinato a questo fine astratto: Adele non fa alcuna valutazione sulla persona o sulle qualità del suo amato, le interessa esclusivamente la possibilità di trovare un oggetto e legarlo in un rapporto all’infinito, perché pensa che questo le consenta di superare le incertezze ed evitare il vuoto affettivo. Per cui sarebbe disposta a tutto: “Anche da sposato avrai la stessa libertà…potrai vedere tutte le donne che vuoi!”
Altro elemento caratteristico del delirio di Adele è la capacità di utilizzare, coagulando tutte le energie mentali, un pensiero verbale molto ricco. La cintura esterna protettiva è perfettamente funzionante e può fare uso di maschere del tutto adeguate alle varie situazioni. La vediamo mentire, costruire storie, dire bugie, senza esitazioni e senza che nessun dubbio insorga nell’interlocutore; esemplare la scena del colloquio con il padre della promessa sposa di Albert, quando finge di essere in gravidanza pur di impedirgli le nozze.
Il delirio non si può definire illusione o frutto di una semplice proiezione che si infrangerebbe al confronto con la realtà. Esso è, in questo caso, idea-madre che viene messa dentro la realtà per deformarla (identificazione proiettiva). E’ una convinzione irriducibile e infatti non c‘è niente che faccia dubitare Adele o farla recedere dai suoi propositi.
Pinson tenta in tutti i modi (“ non sono venuto per chiederti in sposa.. non ti amo più…non mi devi perseguitare”). Ma la certezza di lei è incrollabile: “Quando una donna come me si dà ad un uomo diventa sua moglie…sarò tua moglie per sempre”. E ciò si spiega perché, l’erotomania è per Adele un tentativo estremo di rapporto con la realtà. Una difesa dal vuoto e dalla frammentazione. E’ come se il delirio passionale fosse il collante fasullo per tenere insieme i pezzi dell’io, difesa estrema dall’angoscia del nulla.
E nel funzionare come difesa estrema dell’io, il delirio deve ricostruirsi di continuo e in maniera immediata con una modalità suggestiva, eliminando tutto il contenuto dell’esperienza appena vissuta, e sostituendolo con l’elaborazione delirante.
Sul finale, progressivamente il pensiero delirante perde coerenza e sistematicità, e la frammentazione si estende al comportamento e infine alla coscienza. La comparsa delle pseudo-allucinazioni, segna il passaggio dal delirio lucido a quello confuso. Infine, colpita sul punto più debole, l’immagine pubblica, (“Sei ridicola.” le dice Albert, umiliandola di fronte ai suoi soldati) la struttura di personalità va incontro alla rottura definitiva.
Crollata la cintura esterna protettiva che alimentava il falso sé, il pensiero delirante non riesce più a strutturarsi in modo coerente, (“Denuncio l’impostura dello stato civile e la truffa dell’identità…nata da padre sconosciuto... io sono nata da padre sconosciuto!”) non regge al confronto con la realtà, la personalità si deforma fino a frammentarsi nella condizione psicotica disorganizzata.
Un caso esemplare di paranoia: EL
Un film di Luis Buñuel del 1952, ambientato in Messico nella stessa epoca. I personaggi appartengono a famiglie cattoliche e benestanti.
Il protagonista maschile, Francisco, nella prima scena partecipa attivamente alla celebrazione di una funzione religiosa.
Dopo questa breve sequenza iniziale, che con grande efficacia ci fornisce già tutti gli elementi più importanti per comprendere il contesto in cui ci troviamo, il regista ci introduce direttamente, e ancor prima che nello stile di vita e nella quotidianità, nel mondo interiore del protagonista Francisco, di cui avvertiamo immediatamente le fissazioni. Al gesto del vescovo che bacia i piedi ai novizi dopo il lavaggio di purificazione, Francisco si volge a guardare i piedi dei fedeli seduti nei primi banchi. Rimane “folgorato” da quelli di una donna che sapremo poi chiamarsi Gloria. Finita la celebrazione, senza esitazioni, Francisco cerca subito un primo contatto con la donna. Le offre di bagnarsi le dita di acqua santa dalla sua mano. Gloria non raccoglie l’offerta ed esce dalla chiesa di gran fretta. Francisco tenta di raggiungerla ma, involontariamente, viene impedito in tale intento dal suo amico padre Velasco che, trattandolo con grande affetto, lo presenta ai suoi colleghi.
Nelle scene successive Francisco è nella sua casa e lo vediamo accogliere il suo avvocato dal quale sembra aspetti ansioso delle notizie. Il legale gli comunica che la causa volta a riacquisire la proprietà di alcuni terreni ed edifici, appartenuti un tempo ai suoi antenati, ha poche possibilità di risolversi in un successo. La reazione di Francisco è violenta e fortemente rivendicativa contro quelli che non gli riconoscono un diritto che egli sostiene sia scontato, anche se risalente a molti secoli prima. Egli pensa che se l’avvocato considera le ragioni della controparte allora è contro di lui. Gli revoca l’incarico e lo accompagna lui stesso alla porta, mentre chiama il suo domestico Pablo urlando. Congedato l’avvocato, facendo ritorno nella sua stanza, incontra la cameriera mentre corre per le scale. Da un breve scambio verbale si intuisce che è stata molestata da Pablo. Francisco parla con quest’ultimo ma non è affatto interessato ai suoi tentativi di dare spiegazioni su quanto accaduto. Dice che non tollera tali mancanze di rispetto alla sua casa e per evitare che si possano ripetere è meglio allontanare al più presto la cameriera!.
Il secondo incontro con Gloria avviene di nuovo in chiesa. Francisco le dichiara che dalla prima volta che l’ha vista si è recato lì ogni mattina e sera nella speranza di incontrarla di nuovo. Lei imbarazzata se ne va dicendo che non avrebbero più dovuto vedersi. Seguendola egli scopre che Gloria è la fidanzata di Raul Conde, un suo amico ingegnere. Molto determinato, Francisco finge, nei giorni successivi, una visita di cortesia all’amico e riesce ad invitarli a casa sua per una festa. Qui egli continua a corteggiare Gloria che cede alle sue lusinghe.
Con un evidente salto nel tempo, nella successiva sequenza del film, vediamo l’ingegnere ex fidanzato di Gloria, costretto ad una brusca frenata per non investire con l’automobile una donna. E’ Gloria. Appare stanca, visibilmente confusa e disorientata. La sua disperazione la porta a confidarsi con Raul. Parla di Francisco; lo definisce un uomo malato. I primi segni della sua malattia le si manifestarono già dalla prima notte di nozze. Inizia un lungo flashback che spiegherà come Gloria sia potuta arrivare a tale grado di agitazione e confusione:
Si vede Francisco che mentre bacia Gloria è colpito dal suo chiudere gli occhi e le chiede “a chi pensi? “. Gloria è stupita di questa domanda. Egli insiste ed ancora più sospettoso le dice che da questo momento vuole sapere tutto di lei e che il suo atteggiamento è reticente ed equivoco. Non appagato dalle risposte, Francisco se ne va per poi tornare durante la notte chiedendo di essere perdonato. La donna è perplessa e annichilita da questa reazione.
L’indomani, passeggiando, Francisco le mostra i terreni e gli edifici di cui rivendica la proprietà, “se c’è giustizia, torneranno ad essere miei.” Incontrano un amico di Gloria. Francisco è molto sgarbato e le dice che non gli ha fatto una buona impressione.
Durante la gita evita accuratamente di fare alla moglie delle fotografie. Nel vedere due uomini si nasconde perché crede lo stiano seguendo.
Parlando con Gloria le dice che è attratto molto da alcune sue caratteristiche come la bontà, la devozione e la dolcezza e lei invece dice di ammirare in lui la sua area di autorevolezza, di sicurezza. Francisco accetta con una certa riserva tutto ciò (dice “supposto che sia tutta verità”) e chiede quali siano invece le cose che in lui non apprezza. E’ molto insistente finché Gloria dice che lo trova un po’ ingiusto. Francisco non accetta assolutamente tale risposta, crede infatti che “pochi siano giusti come lui”.
L’amico di Gloria che durante il pranzo sta al loro stesso ristorante è poi casualmente ospite della camera d’albergo attigua a quella della coppia e comunicante con una porta. Vedendo che l’uomo al ristorante scherza col cameriere, Francisco crede che lo faccia per burlarsi di lui (“sta ridendo di me”).
Inizia un’escalation di comportamenti: Francisco dapprima infilerà un lungo ferro nella serratura della porta di Gloria per colpire l’amico di lei, dato per certo nell’atto di spiarla, poi, arriverà ad aggredirlo fisicamente ed, accusandolo di molestie, a farlo allontanare dall’albergo.
Tornati a casa, Francisco cerca di isolare Gloria, evitandole anche contatti con la madre. Il giorno del compleanno della moglie sembra essere più affettuoso e disponibile. Le regala un profumo e le comunica di sentirsi euforico in quanto un giovane avvocato gli ha dato nuove speranze in merito alla causa sui terreni contesi. Farà una festa. Inviterà l’avvocato, gli amici e la madre di Gloria. A quest’ultima chiede inoltre di essere ospitale e particolarmente affabile con l’avvocato. La sera della festa, incoraggiata da Francisco stesso, Gloria balla con l’avvocato che nella conversazione ridimensiona l’ottimismo di Francisco riguardo la possibilità di vincere la causa. Quest’ultimo intanto, osserva irritato la confidenza e l’ospitalità che Gloria mostra all’avvocato e che lui stesso ha promosso. Anche padre Velasco giudica disdicevole la condotta di Gloria e lo fa notare alla madre di lei.
Francisco evita di incontrare la moglie per un giorno intero fino alla sera successiva. A cena discutono vivacemente; Francisco l’accusa di preferire l’avvocato a lui. Gloria è disperata. Da sola sembra non riuscire più a farcela. In un primo momento cerca l’aiuto della madre che non accoglie le sue preoccupazioni e non percepisce la gravità e l’urgenza della situazione neanche di fronte ai lividi che la figlia le mostra. La madre sembra non ascoltare le parole della figlia rimanendo allineata con la visione della realtà fornitale da Francisco, che tempestivamente l’ha incontrata e si è con lei “confidato” quella stessa mattina.
Successivamente Gloria si rivolge all’amico di Francisco padre Velasco. Questi le dice che il marito è già stato da lui a parlargli dei loro problemi. Secondo il religioso, Francisco è un perfetto cristiano ed è anche un uomo puro perché prima di lei non ha mai conosciuto altre donne. La donna, invece, appare al prete troppo “leggera” e incapace di apprezzare le doti del marito.
Tornata a casa Gloria, Francisco è furioso e le impone di dover mettere fine a questo suo comportamento: parlare fuori casa dei loro problemi. Quindi la terrorizza sparandole con una pistola a salve!
Gloria è molto provata da tale episodio: mentre il marito la cura affettuosamente e le mostra un forte pentimento, chiedendole scusa piangendo.
La donna è ormai da tempo praticamente “serrata” in casa. Francisco le parla e le dice che è ora di finirla di vivere in modo cosi terribile: vuole uscire. Trovare però un luogo in cui andare non sembra a Francisco molto semplice. Non vuole incontrare troppe persone, “…mi indigna vedere la felicità degli stolti…” Propone un posto in cui possono recarsi; “un luogo meraviglioso ed unico.”
E conduce la donna su un campanile. Egli sostiene che solo lì si sente felice, lontano dalle preoccupazioni e dalle malvagità del suo “amato prossimo.”
Dall’alto Francisco esprime tutto il disprezzo che prova per le persone. Li paragona a vermi che strisciano sulla terra. La sua attenzione poi si sposta su Gloria. Le dice che lì, da soli, nulla potrebbe impedirgli di castigarla. Si avventa quindi su di lei gettandole le mani al collo. Gloria però scappa urlando. Poi per la strada avviene l’incontro con Raul.
Qui finisce il lungo flashback. Gloria confessa a Raul che nonostante tutto ciò vuole provare ancora ad aiutare il marito. E’ ancora convinta che Francisco la ami.
Raul accompagna Gloria a casa. Basta questo per confermare i sospetti di Francisco, il quale osserva la donna che scende dall’auto di Raul. Ma Gloria per la prima volta dice basta. Dichiara di non essere più disposta a sopportare e che andrà via. Francisco è sconvolto da tale reazione. Va in camera di Pablo e gli chiede se ucciderebbe la moglie infedele. Questi gli dice che non lo farebbe.
Francisco vaga per casa. E’ fuori di sé. Cammina a zig zag. Prende un bastone e comincia, in piena notte, a battere ripetutamente sulla ringhiera delle scale.
La mattina seguente la sua gelosia e rabbia sembrano aver perso l’intensità della sera prima. Prega la moglie di aiutarlo. Appare indifeso e bisognoso di lei. Deve scrivere un’istanza al Presidente in merito alla sentenza sui terreni da lui reclamati. Piange e si fa consolare. Chiede a Gloria se lei lo odia. Dice di essere disperato. Poi il clima cambia di nuovo. Riprende ad accusarla e a minacciarla: secondo lui la donna ha fatto molto male ad andare a raccontare in giro le loro cose.
Di notte prepara una corda, un ago ed un filo. Va nella stanza di Gloria e tenta di legarla. Gloria si sveglia ed inizia ad urlare fino a far accorrere i domestici. Francisco si va a chiudere nella sua stanza.
La mattina seguente quando va a cercarla viene informato che Gloria è andata via. Sembra deciso a tutto. Prima di uscire prende la pistola. I primi tentativi sono a casa della madre di Gloria e a quella di Raul. Non la trova. Gli sembra di vedere e sentire le persone ridere di lui. Vede una coppia e la segue fino in chiesa. Solo quando li ha raggiunti capisce di aver sbagliato: non sono Raul e Gloria. Sente i fedeli ridere di lui. Si alternano immagini di vecchie signore che pregano ad immagini di queste che ridono e, secondo Francisco, ridono di lui. Un pensiero lo assorda e lo soffoca: “lo sanno tutti, si stanno burlando di me”. Infine anche padre Velasco, suo amico, entra in questa deformazione della realtà. Accanto alle immagini che lo vedono celebrare la messa, si accostano quelle in cui egli ride di lui. Francisco, furioso, lo aggredisce mentre i fedeli accorrono a fermarlo.
Da questi episodi passano anni e le scene successive ci mostrano Francisco in un monastero. Gloria e Raul lo osservano da una finestra mentre conversano con il padre priore che lo descrive come buono ed umile, dal comportamento esemplare. Con loro c’è un bambino di nome Francisco.
Congedati gli ospiti, il padre priore si reca nel chiostro in cui Francisco sta passeggiando. Egli chiede notizie sulla visita ricevuta. Li ha visti affacciati; ha visto che con loro c’era anche un bambino. Commenta: “lo vede che non sono così delirante come dicevano. Il tempo alla fine si è fatto carico di ridarmi la ragione. Alla fine il passato è morto. Io ho raggiunto la vera pace dell’anima”.
Il film si conclude con una splendida immagine di Francisco che percorre il viale seguendo un immaginario percorso a zig zag.
Caso esemplare di personalità paranoide che evolve in delirio.
Assai evidenti, oltre al delirio di gelosia, gli spunti megalomanici, il che già ci fa capire che si tratta di un delirio misto. La cosa pone l’attenzione sul fatto che l’essenza della paranoia non è nel tema delirante ma nel modo di delirare. Come vedremo, è possibile individuare una matrice del delirio, non tanto come postulato o idea-madre (presente solo nei deliri passionali), quanto come modalità delirante, espressiva della struttura di pensiero e indicativa della gravità del caso.
Qui vediamo come spesso il protagonista si senta un essere superiore, diverso dagli altri, incompreso, un essere cui appartiene come a pochi il senso della giustizia e della verità. E’ interessante come Buñuel tratteggia il tema della “verità”: alle persone cui confida l’angoscia che sta vivendo, Gloria appare portatrice di una verità poco credibile a differenza di lui, Francisco, il più credibile, l’onesto, l’irreprensibile, l’innamorato marito la cui unica colpa è il grande amore che ha per lei, “la prima donna della sua vita”; allora perché dolersi di una gelosia tanto naturale?
Gli stessi segni delle percosse che la donna mostra sbiadiscono se confrontati con le ragioni che lui porta, così convincenti! Attrazione ed aggressività si alternano repentinamente, le crisi succedono alle crisi, alle accuse irrealistiche, alle chiusure mutaciche: la maschera del “vir” impeccabile si scioglie poi nel pianto disperato dell’abbandono infantile, nella disperazione del bambino angosciato che sente il mondo contro.
La storia si snoda quindi con una naturalezza che sembra trasposta da un caso clinico reale e con la sottigliezza di riferirsi specificamente ad una forma paranoide e non schizofrenica.
C’è tutto: la cintura protettiva costituita da “sani” principi religiosi e da un giudizio morale inattaccabile. Il comportamento è irreprensibile e manifestamente volitivo, con la cura dei dettagli e l’arte di manipolare le situazioni ufficiali e mascherarsi dietro atteggiamenti disinvolti e di prammatica. Il nucleo affettivo molle, affiora di tanto in tanto, pronto a manifestarsi in forma violenta e a nascondersi dietro l’ideazione delirante, che è pur sempre una forma di rapporto con la donna, anche se attaccata e umiliata dalle scenate di gelosia. E’ la percezione di questo nucleo affettivo vulnerabile e infantile che lascia immaginare a Gloria aspetti passionali che in realtà non esistono, se non come espressioni dell’arida prosopopea del marito. Non manca nell’insieme del quadro delirante di Francisco né il delirio di rivendicazione, né quello interpretativo. Nel primo caso, la vertenza legale impossibile, nella quale Francisco pretende di ottenere le terre relative al suo titolo nobiliare, trascurando che nei secoli su quei territori è sorta una città. Gli avvocati vengono messi alla porta, dopo essere stati blanditi, come se la colpa dell’insuccesso fosse loro e non dell’assurda pretesa. Nel secondo caso, il delirio di gelosia è solo l’involucro esterno di quello di persecuzione. Francisco agisce per primo contro Raul, corteggiando Gloria fino a strapparla a lui. Poi, una volta “impadronitosi” dell’oggetto ammirato, entra nell’ossessione delirante di essere a sua volta tradito dalla donna. Non c’è alcun postulato passionale all’inizio. Non c’è cellula-madre affettiva, solo orgoglio, ambizione, manipolazione e violenza che si manifestano secondo il ben noto meccanismo dell’identificazione proiettiva. Come un boomerang, gli spunti deliranti s’intrecciano in una trama che lo stesso soggetto non riesce più a controllare. Il sistema delirante paradossalmente prende corpo dal falso rigore morale precedente, che rinforzava la maschera di apparente normalità del protagonista. Accanto alla paranoia prima latente e poi manifesta di Francisco, c’è l’ambiente umano ottuso e appiattito sull’accettazione di comportamenti condivisi, per cui il prete, la madre di Gloria, il cameriere sono conniventi e passivi nei confronti della patologia del paranoide. Se la fase pre-delirante è costellata di spunti persecutori e tormentata più dal possesso che dalla gelosia, con il delirio conclamato assistiamo a un quadro simile alla bouffée delirante, nel quale predominano le percezioni deliranti e il modo di delirare “a rete”. Francisco, infatti, non è affetto da un delirio passionale. In quest’ultimo, come ci spiega de Clérambault, potremmo percorrere la strada a ritroso fino alla cellula-madre. Qui è impossibile. Forse andando all’indietro si potrebbe scorgere la fragilità di un bambino costretto ad adattarsi a un modello educativo repressivo, ma al posto della fragilità ora è comparso il delirio di onnipotenza espresso nella scena del campanile. L’esistenza di Francisco dimostra di essere deformata in modo assoluto. Gloria lo intuisce e ne prova pietà. Non è ottusa, è solo ingenua e romantica, ma a poco a poco si rende conto della persona con cui ha avuto a che fare e riesce a recuperare il rapporto con Raul.
I due andranno a trovare Francisco nel monastero dove lo hanno internato (per farlo espiare secondo la visione medievale del disturbo mentale, invece di curarlo). In fondo al film, l’allusione alla pseudoguarigione del paranoide: l’affermazione di efficienza razionale da parte del protagonista spacciata per sanità mentale; poi, lo splendido finale ironico e graffiante dello zig-zag del “guarito”.
La matrice del delirio
Abbiamo premesso che saremmo andati a definire ciò che è essenziale nel delirio, dopo aver studiato e approfondito le differenze fenomenologiche tra le varie forme deliranti. Lasciamo da parte l’attività delirante degli schizofrenici (delirio autistico), perché la matrice in questo caso è da ricercare nella frammentazione e disorganizzazione della personalità, già in atto da diversi anni (calcolando il DUP) o appena all’esordio (sintomi di base). Ci siamo proposti di studiare la paranoia, a partire dal disturbo di personalità paranoide fino ai cosiddetti disturbi dello spettro schizofrenico, di cui fa parte il disturbo delirante, definizione attuale secondo il DSM-5 di quella che è stata, fin da Kraepelin, la paranoia. Grazie agli autori francesi, abbiamo acquisito la necessaria differenziazione tra le sindromi deliranti, ritenendo utile la tripartizione tra: deliri passionali, deliri di rivendicazione, deliri interpretativi (Ey et al., 1978), rami diversi di un unico tronco: la paranoia. Per i primi due, l’autorevole contributo di de Clérambault ci ha permesso di riconoscere una matrice affettiva piuttosto evidente (idea-madre; cellula-madre), ossia la relazione con una persona o un evento significativo tale da spiegare la deformazione “a settore” della personalità. Nel delirio a settore, quindi, c’è una chiave di lettura delirante di un fatto specifico e tutto ciò che vi attiene contribuisce in modo consequenziale allo sviluppo dell’idea prevalente o postulato che sostiene il delirio. Se per ipotesi dovesse cadere l’assunto di base che fa da postulato, il soggetto smetterebbe di delirare, in quanto il resto della personalità rimane indenne dal disturbo (cfr. de Clérambault, p. 343-344-345). Convalidando la presenza di un postulato da cui deriva lo sviluppo del delirio (passionale e di rivendicazione), stiamo sostenendo che l’idea-madre non è di natura razionale bensì affettiva. Quindi, ponendo all’origine di due dei tre rami della paranoia la motivazione affettiva (aspettativa d’amore; esigenza di giustizia; esigenza di riconoscimento), lo sviluppo del delirio, col suo estremismo e rigore irriducibile, diventa piuttosto comprensibile, fino a poter essere incluso nella categoria delle reazioni paranoidi, ossia ciò che la stessa personalità di base lasciava prevedere nel suo sfondo, a partire dal sospetto e dalla diffidenza.
[…] Dal punto di vista psichiatrico non interessano tanto le interpretazioni erronee e false su base razionale, quanto invece quelle su base affettiva, cioè solo quelle interpretazioni che si verificano sulla base di un determinato stato d’animo, di angoscia, di sfiducia e di sospetto – come quando uno che è in ansia di essere arrestato scorge un poliziotto in qualunque persona che venga su per le scale.
Queste reazioni paranoidi che, dal punto di vista del contenuto, si mantengono strettamente in rapporto con le direttive dello “sfondo” affettivo, sono qualcosa che, in ultima analisi, è sempre comprensibile…[…] Schneider 1950, p. 133.
In effetti, le storie di Kohlhaas e di Adele H riflettono le caratteristiche di turbamento e crisi reattiva, sulla base di un disturbo di personalità. Se però, in loro, si sviluppa un vero e proprio delirio paranoide, dobbiamo cercare un momento decisivo e determinante nel quale avviene il passaggio dalla semplice reazione al delirio. Questo momento ha il carattere della rivelazione, della scoperta, di un insight che fa apparire chiaro ciò che prima era vago e indefinito. Parliamo di intuizione delirante, ovvero di un pensiero che come un lampo rischiara un cielo scuro e tenebroso, fungendo da ora in poi come punto di orientamento e di certezza. L’episodio della morte della moglie in circostanze misteriose e casuali, dopo averla inviata a cercare giustizia, diventa per Kohlhaas il punto di non ritorno che lo spinge a passare dalla richiesta di giustizia alla guerra contro colui che lo ha offeso e, allargando ancor di più, contro il potere costituito del Principe. Contro ogni evidenza, Adele H scrive al padre sulle intenzioni di Pinson: “Lui mi ama e mi vuole sposare….”, avvalendosi del combinato disposto della scrittura e della pretesa assurda, che non è bugia ma espressione di un pensiero delirante che si nutre di se stesso. In tal senso, il cosiddetto Einfall (intuizione delirante) è un pensiero che ha una correttezza logica e una particolare importanza per il soggetto, ossia un’attinenza che abbraccia tutta la sua vita, il mondo dei suoi valori, il suo essere passato e attuale. Insomma l’Einfall è il prodotto di una personalità e della sua struttura ma non è specifico del delirio. Deliri passionali e di rivendicazione, quindi, caratterizzati dall’Einfall, fanno parte della paranoia in quanto possono in diversi casi sfociare in deliri interpretativi ed esprimere una psicosi paranoide (come nel caso EL). Se la sindrome delirante si manifesta in modo esclusivo con Einfall, non si può parlare di paranoia ma di reazione paranoide (fenomeno assai frequente nei disturbi di personalità).
[…] Per intuizione delirante (“Wahneinfall”) noi intendiamo delle intuizioni simili a quelle del sentire una vocazione religiosa o politica, dell’avere una capacità particolare, dell’esser perseguitati, dell’esser oggetto d’amore. […] p. 134
[…] L’Einfall delirante ha, dal punto di vista logico, un solo elemento di articolazione. Se a qualcuno “viene in mente” di essere Cristo, si tratta di un processo ad un solo elemento; questo elemento (di articolazione) parte da colui che pensa e arriva all’Einfall; […] p. 139
[…] Quando si dice che un “Einfall” delirante ha un “significato particolare” non si vuole intendere altro che la “particolare” importanza, il “particolare” valore che quella “intuizione” riveste per l’interessato. Invece nelle percezioni deliranti si tratta di tutt’altra cosa: ad una percezione viene attribuito un significato abnorme in un modo particolare, in un senso particolare (significato delirante).
Ora, però, questo particolare valore dell’Einfall delirante, con tutto il suo peso, non può servire come decisivo criterio di distinzione di questa “intuizione” (delirante) dalle altre “intuizioni” (non deliranti). Anche la “intuizione” di una scoperta o una “intuizione” religiosa della vita non-psicotica possono avere, almeno secondo la nostra opinione, lo stesso valore particolare, lo stesso significato per il soggetto che li “vive”; comunque è impossibile cogliere una differenza (tra l’Einfall delirante e quello non-delirante). […]
[…] Nei casi di “intuizione” delirante non si può neppure applicare, in linea di principio, il criterio dell’inderivabilità psicologica, della primarietà; l’Einfall infatti scaturisce dal mondo prepsicotico di pensieri, valori, impulsi del delirante.[…] Schneider 1950, p. 141.
La prosa asciutta ma precisa del maestro di Heidelberg ci guida con cura alla ricerca della matrice del delirio. Il terreno complicato della paranoia confina troppo con la normalità. La somiglianza con illuminazioni, convinzioni, sentimenti improvvisi, folgorazioni, evidenze che emergono occasionalmente, in una parola intuizioni che accadono nella vita normale, rendono l’Einfall un fenomeno che si discosta per l’esagerazione, l’assurdità ma che si muove lungo il continuum che va dal pensiero normale a quello abnorme, da definire non per questo psicotico.
Ciò che caratterizza un pensiero psicotico, quindi, non può essere l’Einfall come elemento isolato ma una struttura complessa, nella quale il delirio si dà innanzitutto in una forma particolare detta Wahnwahrnehmung (percezione delirante). Si tratta di una interpretazione abnorme che però è sincretica con la percezione, in modo tale che a quest’ultima viene attribuito un significato altrettanto abnorme e regolato secondo le istanze personali del soggetto.
“A chi pensi?” chiede Francisco a Gloria la prima notte di nozze, vedendola abbassare lo sguardo. La timidezza della donna in vista del primo contatto sessuale col marito, viene interpretata dal medesimo come rimpianto o nostalgia di un altro uomo. L’interpretazione delirante viene formulata al momento, sincretica alla percezione ed è una domanda retorica che non lascia scampo. Nel corso della notte, Francisco ritorna in sé chiedendo perdono ma questo si rivela solo un episodio nel quale una singola percezione delirante prende il sopravvento e sconvolge il pensiero e il comportamento del soggetto. Lo stesso Francisco agisce un’altra percezione delirante, al ristorante, vedendo il conoscente di Gloria che scherza col cameriere: “sta ridendo di me”. In un’altra occasione, Francisco si esalta alludendo ai terreni dei suoi avi, che egli rivendica in tribunale in un’anacronistica vertenza: “se c’è giustizia, torneranno ad essere miei.” In questo caso, cogliamo un Einfall visionario e ispirato, la cui trascendenza tornerà spesso ad animare il personaggio anche in altre occasioni. Innumerevoli reazioni paranoidi caratterizzano le interazioni di Francisco con l’ambiente, come l’episodio del ballo della moglie con il nuovo avvocato, tra le cui braccia lui stesso la spinge per motivarlo a svolgere bene la causa impossibile. Francisco, che ha invitato Gloria a fare la carina con l’avvocato per opportunismo, sarà colui che la umilierà davanti alla servitù accusandola di aver civettato con un altro uomo davanti ai suoi occhi.
[…] Noi chiamiamo pensieri deliranti le opinioni sostenute e mantenute dalle percezioni deliranti come pure le “intuizioni” deliranti persistenti. Il termine “idea delirante”, derivato da una psicologia ormai da lungo tempo superata, sarebbe bene non usarlo più. Quando vengono a stabilirsi collegamenti e rapporti tra le singole percezioni deliranti, le reazioni paranoidi, le “intuizioni” deliranti e i pensieri deliranti, allora si ha un sistema delirante. […]
[…] La percezione delirante presenta due elementi (una doppia articolazione), cioè è logicamente disarticolabile in due membri. Il primo elemento va dal soggetto che percepisce all’oggetto percepito, il secondo va dall’oggetto percepito al significato abnorme. […] Schneider 1950, p. 137.
Abbiamo visto come nella bouffée delirante si articolano le fasi del delirio acuto (cfr. Conrad cit.). In questo caso, è particolarmente importante seguire lo sviluppo dalla fase di trema (ratlosigkeit, perplessità) alla fase di anastrophé (capovolgimento), in cui il soggetto è condizionato al massimo dalle sue percezioni deliranti. Nel delirio acuto, è possibile risalire indietro fino alle fasi (ratlosigkeit, wahnstimmung) nelle quali la personalità è ancora impegnata nel conflitto interno ed esterno. La rapidità dell’inizio e la condizione pre-morbosa a portata di mano aprono spazi ed opportunità per il clinico psicoterapeuta. Anche i significati abnormi (cfr. Schneider cit.), nel senso dell’autoriferimento, attribuiti ad una percezione senza un motivo comprensibile conforme alla ragione (razionale) o al sentimento (emozionale), possono essere ricondotti facilmente al terreno psicologico (personalità, biografia etc.) nel quale si è sviluppato il delirio, e spesso anche all’evento che lo ha scatenato. Non è così per il delirio cronico. Il clinico, nelle sedi opportune, impatta quasi sempre col sistema delirante e l’impressione è quella di essere chiamato a combattere una guerra di trincea. E naturalmente, la prima cosa da fare è deporre le armi (quelle della logica) per tentare, di fronte alle percezioni deliranti, di circoscrivere il significato abnorme dal percepito non alterato e considerare l’attività interpretativa che conferisce al percepito stesso il significato particolare che risulta essere delirante, in quanto ohne anlass (senza motivo), ma espressivo della condizione psicotica del soggetto.
[…] Questo significato è di tipo particolare: quasi sempre è inteso come qualcosa di importante, di profondo, di penetrante, in certo qual modo di personale, come un avvertimento, un messaggio, un’ambasciata proveniente da un altro mondo. […] Schneider 1950, p. 131.
Prendere atto delle percezioni deliranti, anche nei deliri cronici, è un modo per risalire alla matrice del delirio. Cogliere questi sintomi non è che un approccio alla diagnosi di psicosi (disturbo delirante DSM-5). Senza un’accurata valutazione della personalità e di altri sintomi psicotici, la rilevazione di percezioni deliranti isolate potrebbe rivelarsi un azzardo e far incorrere il clinico in errori e false diagnosi, che a quel punto, come un boomerang, riporterebbero il problema alla personalità del clinico e non risparmierebbero al paziente danni da considerare iatrogeni.
[…] la percezione delirante, che è più facilmente individuabile di per sé come sintomo psicotico, non si presenta mai completamente isolata: è difficile che, oltre ad essa, non vi sia qualche altro sintomo psicotico. E’ anche per questo motivo che i casi con percezioni deliranti sono molto più facilmente inquadrabili come psicosi che non quelli che presentano “intuizioni” deliranti, isolate. […] Schneider 1950, p. 142-143.
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1 disturbo delirante nel DSM-5
2 Il contrario del dubbio metodico o dell’incertezza speculativa